Ma
la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano,
scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano
delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni
segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.
(Italo Calvino, Le città invisibili)
La città, distrutta, deformata, rinata dalle proprie ceneri,
al tempo stesso metafora e nemesi di un sistema e di un potere fatalmente
votati a un destino di implosione/esplosione, è senz’altro una delle immagini
più potenti, disturbanti e presenti del cinema di animazione giapponese
contemporaneo. Da Akira di Katsuhiro
Ōtomo (1988) a Metropolis di Rintarō
(2001), per limitarci agli esempi più famosi, la metropoli si costruisce come
fulcro della narrazione del fallimento della modernità, lo stesso che ha
condannato l’umanità a vivere nel limbo sospeso dell’era post-atomica. Edifici
che dovrebbero racchiudere e proteggere le vite degli individui e della
comunità, articolare gli spazi del pubblico e del privato, si rivelano inadeguati,
ambigui, inospitali, porosi. E il rapporto fra l’uomo e l’architettura urbana
si fa incerto, e fragile.
La mappa metropolitana di Tokyo – riferimento ossessivamente
presente, citazione esplicita o metonimia – si fa ora cartografia di uno spazio
simbolico, e in gioco non è solo la distribuzione architettonica delle aree
urbane, quanto la rappresentazione iconica del controllo sullo spazio geografico
e sulla comunità che lo abita a opera dei meccanismi politici, e la costruzione
di nuove gerarchie, valori e poteri.
Film di culto, psichedelico e visionario, Akira
esplora uno dei temi ricorrenti dell’animazione giapponese di fantascienza, la
metamorfosi del corpo. La pellicola si snoda fra due distruzioni, quella di
Tokyo, al termine della III Guerra Mondiale, il 16 luglio 1988 (data della première del film), e quella di Neo
Tokyo, risorta dalle macerie 31 anni dopo e teatro della vicenda. Al centro, la
figura di Testuo, membro di una delle gang di motociclisti che imperversano per
le strade della città.
Legato al capo della banda, Kaneda, da un’amicizia profonda che
risale ai tempi della loro difficile infanzia in orfanotrofio e che suscita in
lui un mix di sentimenti contraddittori e confusi, sospesi fra una sorta di dipendenza
e il risentimento, è un adolescente fragile, fatalmente destinato a essere
manipolato da una scienza al servizio delle oscure mire di un potere politico
tentacolare, e a diventarne strumento di devastazione e morte. Nella sua trasformazione consiste il nucleo narrativo del film: prigioniero nel
laboratorio segreto degli scienziati governativi che con i loro esperimenti
scatenano il suo potenziale psichico, Tetsuo riesce a fuggire, ossessionato da
Akira, un’entità ambigua con la quale in un ciclo di orrifiche mutazioni – che
incidentalmente ricordano un altro cult della cinematografia giapponese dello
stesso anno, Testuo di Tsukamoto
Shin’ya – sembra passo dopo passo identificarsi. Nel finale, scompare,
trascinato nel destino di Akira e degli altri mutanti psichici.
Nell’opening la
città ci viene mostrata in una rapida sequenza a volo di uccello: nella luce
dorata del sole, la grande arteria stradale multicorsia, i palazzi che la
fiancheggiano, fino ad abbracciare con lo sguardo che si alza veloce l’intera
area metropolitana dominata da un pugno di grattacieli grigi, a suggerire la
presenza di un potere (politico) che allunga la sua ombra minacciosa sulla
comunità. All’improvviso una luce incandescente, dalla forma perfettamente
semisferica – plastica stilizzazione del fungo atomico – avanza dai sobborghi
fino a divorare l’intera città, strade, palazzi, grattacieli. Una scena della
durata di una manciata di secondi, eppure dilaniante per lo specifico legame
che instaura tra spazio, memoria e identità. Tokyo, Hiroshima e Nagasaki: prodotti
della storia che, integrati e più e più volte riproposti nei meccanismi
culturali, ne sono riemersi trasformati in significanti universali, per cui a
essere in gioco non è ormai l’identità “giapponese”, ma quella dell’uomo
condannato a vivere nell’era post-atomica.
Siamo tutti dei sopravvissuti. Tokyo, fin dall’epoca della
sua prima, grande espansione alle soglie del ‘900, è sempre stata una delle
città simbolo della modernità, del progresso; rasa al suolo dai bombardamenti
sullo scorcio della II Guerra Mondiale, non solo risorge dalle proprie stesse
macerie ma più di ogni altra metropoli
contemporanea sembra incarnare il sogno avvenirista e il modello della global city.
[...]
Akira
fotografa il momento in cui la “città globale” si sta affermando, uno spazio
architettonico e simbolico che racchiude le caratteristiche individuate da
Sassen, e in più coglie quello che è il tratto peculiare di Tokyo rispetto a
New York o Londra, la proiezione nel futuro. Non a caso, dopo l’opening e i titoli di testa, ci troviamo
catapultati nel 2019, a Neo Tokyo. Questa volta lo sguardo è dal basso, sono
piedi che si muovono nei vicoli degradati, aree liminali dal punto di vista
urbanistico, economico, sociale, la zona d’ombra del sistema capitalistico. E
poi la corsa in moto fra i grattacieli, i fari di luce, le rutilanti immagini
pubblicitarie: la scena è una citazione fin troppo esplicita di Blade Runner di Ridley Scott, film di
culto del 1982. La lettura filologica della città dei replicanti è nota: una
Los Angeles distopica del 2019 (!), con tutti i tratti della metropoli
asiatica; lo skyliner si dice sia di Hong Kong, ma nell’immaginario si
sovrappone a quello di Tokyo, capitale allora emergente, in pieno boom
economico. Colpisce qui come in Akira
la disturbante assolutizzazione dell’estetica della sgradevolezza, nessun ristoro
è concesso allo sguardo, solo ombre cupe, degrado, e l’ubiqua sensazione di
pericolo. Perché questa è l’eredità di Hiroshima e Nagasaki, la paura di una
forza distruttrice incontrollata scaturita dal cuore stesso di quelle città
teoricamente costruite per accogliere e tutelare la vita delle comunità. Le
metropoli cresciute fra le due guerre, ispirate ai modelli dei maestri del
modernismo – Mies van der Rohe, Frank Lloyd Wright, Le Corbusier – proponevano
una marcata separazione degli spazi: edifici governativi, università, aeroporto
e stazione ferroviaria centrale, area industriale, zona residenziale…un’articolazione
razionale non solo delle architetture, ma anche della vita degli individui,
pensata per garantire ordine, sicurezza, normalità.
Ma dal centro nevralgico di quelle stesse città, la sede del potere,
urbanisticamente collocato e pensato per poter essere riconosciuto come punto
di riferimento dell’identità nazionale collettiva, si è sprigionata una incontrollabile
potenza distruttrice che ha alterato per sempre l’equilibrio uomo/scienza/natura.
Per questo il potere – qualunque forma di potere, politico o economico – nel
mondo post-atomico è iconicamente reso in costruzioni grigie, buie, che odorano
di morte.
(Cinergie, forthcoming...)