Per me un Pol Roger rosé (chi mi conosce sa che ho un debole per le bollicine). Per voi? giusto un brindisi, come si addice all'inizio di ogni nuova avventura....

lunedì 12 novembre 2012

Quando fermare il tempo




Quando vorresti fermare il tempo?
Una domanda se vogliamo banale, che un'amica ha postato ieri su FB, un sondaggio che le serviva per un'esercitazione. Volevo rispondere, per dare un contributo, ma non ce l'ho fatta. Sono rimasta lì, con il dito sospeso sopra la tastiera del cellulare, incapace di trovare le lettere su cui posarlo...
Fermare il tempo... Quando? Adesso. Era l'unica risposta che riuscissi formulare. Adesso, e adesso, e poi ancora adesso. Mi sono resa conto all'improvviso che la mia vita è fatta di momenti che vorrei vedere dilatarsi all'infinito. Per riuscire a fare tutto quello che vorrei, e per assaporarlo anziché accantonarlo subito, già inghiottita dall'impegno/progetto/scadenza successivi. Perché non mi ricordo più com'era vivere senza essere perseguitati dalla sensazione di essere sempre in ritardo, sempre sul punto di affogare. Com'era vivere quando la mente e il corpo si muovevano alla stessa velocità. Adesso invece i pensieri volano veloci, ma le dita sulla tastiera scivolano lente, a volte inciampano; gli occhi si velano di ombre, e le gambe sembrano inchiodate al terreno... Ecco vorrei fermare il tempo per dare al mio corpo il tempo di affiancarsi ai pensieri.




martedì 6 novembre 2012

Aki ga kitanda...

Già, in un batter d'occhio è arrivato l'autunno...
"Aki ga kitanda" è il titolo della prima puntata di Hōrōki, diario a metà fra realtà e fiction, la cui pubblicazione nel 1928 segna l'esordio di Hayashi Fumiko (scrittrice oggetto da parte mia di amore struggente...).


Ho imparato questa poesia a scuola, nel Kyūshū:

Nella profonda notte autunnale,
un viaggiatore tormentato da tristi pensieri
nostalgia per la propria casa, per la propria famiglia.

Ero destinata a essere una vagabonda.
Non ho una città natale.
Sono un ibrido, una bastarda.
Mio padre era un venditore ambulante di tessuti di cotone e lino. Era originario di Iyo, nello Shikoku. Mia madre era la figlia del proprietario di un albergo termale sull'isola di Sakurajima, nel Kyūshū. Si era messa con uno straniero, e per questo entrambi  vennero scacciati da Sakurajima. Per un periodo si stabilirono a Shimonoseki, nella prefettura di Yamaguchi, ed è lì che sono nata.

Dal momento che i miei genitori erano stati banditi dalle rispettive famiglie, viaggiare è stata la mia vera casa. Ed è proprio perché ho sempre sentito di essere destinata a una vita vagabonda, che questi versi che parlano della nostalgia con un senso di insostenibile tristezza si sono impressi nella mia memoria. (Hōrōki, p. 8)

Mi sono spesso chiesta se il mio amore per Hayashi non nasca proprio dal fatto che anche io sono a modo mio una vagabonda, un'irrequieta viaggiatrice, incapace di fermarsi troppo a lungo ovunque, sempre a rincorrere  il prossimo pensiero, o il prossimo sogno. Solitaria.

Per me l'autunno quest'anno sono i tetti di Bologna oltre le finestre della mia mansarda, gli alberi del giardino che proprio ieri sono stati potati, la nebbia che avvolge i colli troppo presto la mattina. L'autunno è la morbidezza di una birra ai fichi, il fondente del fois gras di quel nuovo negozio di specialità francesi aperto in centro, la pungente fragranza dei mandarini. Le lunghe passeggiate fra i portici, il treno che ogni venerdì mi porta in laguna... e la lunga lista delle cose da fare, qui, giusto di fianco al computer.

Ma stamattina l'autunno è anche un libro appena riletto... Ho cominciato la scorsa settimana a ri-sfogliarne alcune pagine, pensando di parlarne a lezione...e poi mi ha catturato di nuovo, e ho finito per leggerlo ancora una volta dalla prima all'ultima riga.

"In quei momenti Daisuke si domandava in silenzio per quale ragione fosse venuto al mondo. A più riprese aveva affrontato questa grave questione e cercato di guardarla in faccia. A volte era motivato da pura e semplice curiosità filosofica, altre volte la sua mente era sollecitata dai fenomeni sociali con tutte le loro complesse sfumature; in giornate come quella, infine, il suo stato era la conseguenza dell'ennui. In ogni caso arrivava sempre alla stessa conclusione. Una conclusione che non rispondeva alla domanda, ma piuttosto la negava. A suo parere, infatti, gli esseri umani non nascevano per realizzare un obiettivo. Al contrario, un obiettivo si formava soltanto quando una persona veniva al mondo. Creare  a priori un obiettivo, fin dall'inizio, e applicarlo a una persona, equivaleva a rubarle la libertà di movimento fin dalla nascita. Un obiettivo era qualcosa che l'essere umano doveva costruirsi da solo". (pp. 149-150)










domenica 2 settembre 2012

Settembre

Settembre è il verde liquido della Bassa Padana sotto la pioggia. Gli scampoli di terra arata di fresco. Il mais maturo nel fogliame secco d'oro brunito. E' l'asfalto sotto le ruote. Il tintinnio delle bottiglie nel bagagliaio. La musica rigorosamente trash dell'autoradio...
Settembre è casa. Un libro non ancora finito perché tu fai un sacco di progetti&programmi ma poi l'estate, la vita ti fanno lo sgambetto. E poi NipPop2013. Forse CineMaki2... E SognandoIncubo...
Ma ci penserò domani. Stasera, settembre è una libro nuovo che aspetta di essere letto.  E un nuovo dorama da sfogliare.





martedì 28 agosto 2012

Dei Nobel, delle quasi omonimie e di altre eresie ...




"Non era il rumore di un aereo. Era il ronzìo di un insetto che mi volava dietro l’orecchio. Più piccolo di una mosca, l’insetto mi ha girato per un po’ davanti agli occhi, poi è scomparso in un angolo della stanza buia.
Sul tavolino bianco rotondo che riflette la luce del soffitto c’è un posacenere di vetro. Dentro si consuma una sigaretta lunga e stretta, sporca di rossetto sul filtro. Sul bord
o del tavolo c’è una bottiglia di vino a forma di pera; sull’etichetta è disegnata una donna bionda con un grappolo d’uva in mano, che si riempie la bocca di chicchi. Anche sulla superficie del vino dentro al bicchiere si riflette tremolante la luce rossa del soffitto. Le gambe del tavolino affondano e scompaiono nella lana folta del tappeto. Di fronte c’è un grande specchio. La donna che vi sta seduta davanti ha la schiena imperlata di sudore. Ha allungato le gambe, e si è sfilata le calze nere arrotolandole lentamente".

(Murakami Ryū, Blu quasi trasparente, incipit)



Se Murakami deve essere, almeno che sia Ryū, ho scritto qualche giorno fa...
Una provocazione? Non del tutto.
Che Haruki non sia il mio autore preferito (non me ne voglia Giorgio...), è cosa nota. Il che non significa che io ne disconosca il ruolo nel turbinio cultural-letterario degli anni '80. 
Ma se dovessi descrivere la sua narrativa in una sola parola, credo sceglierei "inter-nazional-popolare"(ok, sono tre...lo so, ho barato con quei trattini...posso arrivare a due, "global-popolare", rinunciando al sottile retrogusto di Pippo nazionale...). Prolisso, ripetitivo, banale...ogni volta che leggo un suo romanzo, dalla decima riga mi perseguita quella per me sgradevole sensazione di déjà-vu. E' stato così fin dalla prima volta, quando ho letto "Norwegian wood". Con Kerouac accigliato appollaiato sulla spalla. L'unico romanzo che ho assaporato con piacere è stato "Nel segno della pecora". "A sud del confine, a ovest del sole" ho deciso di smettere. Ma non ho saputo resistere al richiamo orwelliano di "1Q84"... giace da mesi abbandonato a p. 50. Conquistando la pool position dei (pochi) libri non finiti della mia vita: "Sangue e arena" e "Il nome della rosa", rimasto ai vertici della classifica per anni (p. 85). Lo so, non si può dire. Ma la tendenza eretica/iconoclasta frizza come champagne nelle mie vene...
Sorvolo sui ritratti femminili che costellano i suoi romanzi: deliziose orecchie pronte ad ascoltare, ad accogliere i tormenti del protagonista (maschio) di turno...silenziose, mute.
Mille volte meglio il disincantato Ryū, provocatorio, scomodo. Tagliente. Con quella stupefacente capacità di vedere un attimo prima dove è che la trama sta per sfilacciarsi in quel tessuto sociale apparentemente intatto, compatto, perfetto...intat-to, compat-to, perfet-to...

Detto questo, cos'è il Nobel? Il Meridiano di Greenwich della letteratura mondiale, risponderebbe Pascale Casanova. Che ogni anno si riposiziona, e, partito dalla vecchia, cara Europa, si è via via spostato - con un po' di diffidenza si intende, sovente zigzagando a passo di gambero - fino ad abbracciare i paesi d'Oltreoceano, e l'Asia. Sull'onda di movimenti, tensioni, lacerazioni legate a questioni di egemonia politica prima ancora che culturale. Ma che cos'è la letteratura mondiale? Il nuovo canone? o piuttosto - come suggerisce Damrosh - una modalità di lettura? cosa determina l'appartenenza o la cittadinanza di un testo letterario? se riconosciamo che il momento della fruizione/circolazione ha in questo caso la precedenza su quello della produzione, e un'opera diventa "mondiale" nel processo di traduzione/distribuzione... allora Haruki for President...
Ammesso naturalmente che il Meridiano di Stoccolma si sposti... un momento... dove? Haruki non vive  più in Giappone da anni...!







sabato 25 agosto 2012

Punto. Linea. Cerchio.


Ecco. questo è quello su cui sto lavorando in questi giorni di fine agosto... Se tutto va bene, diventerà un libro, conclusione di un viaggio iniziato qualche anno fa che da Tokyo mi ha portato a Berlino, a Toronto, a Brasilia. Amo le visioni geometriche di Le Corbusier, le aeree e algide trasparenze di Mies van der Rohe, le architetture delle metropoli reali, dal modernismo sensuale di Oscar Niemeyer alle curve di Calatrava. Mi intriga il modo in cui vengono traslate e reinterpretate nel cinema, e nella letteratura, laddove lo spazio si fa corpo che interagisce con altri corpi, umani, post-umani, monadi disorientate o identità fluidificate in quel magma indistinto che chiamiamo folla. 






Un assaggio della letteratura giapponese contemporanea, dagli anni ’80 ai giorni nostri, con particolare attenzione al rapporto fra scrittura e spazio urbano. Un percorso letterario e metropolitano il cui filo conduttore è l’idea che ogni testo possa essere letto come un “romanzo urbano” (toshi shōsetsu), una narrazione nella quale spazio della città e spazio della scrittura continuamente si intrecciano e si intersecano, e insieme contribuiscono alla costruzione della forma e del senso.
Il noto critico Maeda Ai (2004), nello specifico, ha individuato tre assi sui quali esplorare le interconnessioni di forma e senso fra spazio metropolitano e testo:
1.Asse simbolico, sul quale si collocano lo spazio privato della casa da un lato, e dall’altro i luoghi pubblici, legati a specifici contesti sociali o realtà istituzionali.
2.Asse paradigmatico, l’asse cioè delle opposizioni binarie inside/outside, città/campagna, centro/periferia.
3.Asse sintagmatico, ovvero delle connessioni, sistemi di trasporti, reti stradale, ferroviaria, metropolitana.
Nella scrittura del Giappone odierno, frutto di una cultura per definizione metropolitana, queste tre dimensioni molto spesso convivono e diventano i punti cardinali dell’interpretazione, consentendo non solo di evidenziare i tratti salienti di una letteratura che in anni recenti ha saputo parlare a un pubblico sempre più vasto e lontano dai confini nazionali, ma anche di seguire il rapido mutare ed evolversi di una Tokyo divenuta simbolo ed epitome di una contemporaneità che sempre più si confonde col futuro.
(to be continued...)

giovedì 23 agosto 2012

Cartografie della post-apocalissi...


Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.
(Italo Calvino, Le città invisibili)


La città, distrutta, deformata, rinata dalle proprie ceneri, al tempo stesso metafora e nemesi di un sistema e di un potere fatalmente votati a un destino di implosione/esplosione, è senz’altro una delle immagini più potenti, disturbanti e presenti del cinema di animazione giapponese contemporaneo. Da Akira di Katsuhiro Ōtomo (1988) a Metropolis di Rintarō (2001), per limitarci agli esempi più famosi, la metropoli si costruisce come fulcro della narrazione del fallimento della modernità, lo stesso che ha condannato l’umanità a vivere nel limbo sospeso dell’era post-atomica. Edifici che dovrebbero racchiudere e proteggere le vite degli individui e della comunità, articolare gli spazi del pubblico e del privato, si rivelano inadeguati, ambigui, inospitali, porosi. E il rapporto fra l’uomo e l’architettura urbana si fa incerto, e fragile.
La mappa metropolitana di Tokyo – riferimento ossessivamente presente, citazione esplicita o metonimia – si fa ora cartografia di uno spazio simbolico, e in gioco non è solo la distribuzione architettonica delle aree urbane, quanto la rappresentazione iconica del controllo sullo spazio geografico e sulla comunità che lo abita a opera dei meccanismi politici, e la costruzione di nuove gerarchie, valori e poteri.
Film di culto, psichedelico e visionario, Akira esplora uno dei temi ricorrenti dell’animazione giapponese di fantascienza, la metamorfosi del corpo. La pellicola si snoda fra due distruzioni, quella di Tokyo, al termine della III Guerra Mondiale, il 16 luglio 1988 (data della première del film), e quella di Neo Tokyo, risorta dalle macerie 31 anni dopo e teatro della vicenda. Al centro, la figura di Testuo, membro di una delle gang di motociclisti che imperversano per le strade della città.
Legato al capo della banda, Kaneda, da un’amicizia profonda che risale ai tempi della loro difficile infanzia in orfanotrofio e che suscita in lui un mix di sentimenti contraddittori e confusi, sospesi fra una sorta di dipendenza e il risentimento, è un adolescente fragile, fatalmente destinato a essere manipolato da una scienza al servizio delle oscure mire di un potere politico tentacolare, e a diventarne strumento di devastazione e morte. Nella sua trasformazione consiste il nucleo narrativo del film: prigioniero nel laboratorio segreto degli scienziati governativi che con i loro esperimenti scatenano il suo potenziale psichico, Tetsuo riesce a fuggire, ossessionato da Akira, un’entità ambigua con la quale in un ciclo di orrifiche mutazioni – che incidentalmente ricordano un altro cult della cinematografia giapponese dello stesso anno, Testuo di Tsukamoto Shin’ya – sembra passo dopo passo identificarsi. Nel finale, scompare, trascinato nel destino di Akira e degli altri mutanti psichici.
Nell’opening la città ci viene mostrata in una rapida sequenza a volo di uccello: nella luce dorata del sole, la grande arteria stradale multicorsia, i palazzi che la fiancheggiano, fino ad abbracciare con lo sguardo che si alza veloce l’intera area metropolitana dominata da un pugno di grattacieli grigi, a suggerire la presenza di un potere (politico) che allunga la sua ombra minacciosa sulla comunità. All’improvviso una luce incandescente, dalla forma perfettamente semisferica – plastica stilizzazione del fungo atomico – avanza dai sobborghi fino a divorare l’intera città, strade, palazzi, grattacieli. Una scena della durata di una manciata di secondi, eppure dilaniante per lo specifico legame che instaura tra spazio, memoria e identità. Tokyo, Hiroshima e Nagasaki: prodotti della storia che, integrati e più e più volte riproposti nei meccanismi culturali, ne sono riemersi trasformati in significanti universali, per cui a essere in gioco non è ormai l’identità “giapponese”, ma quella dell’uomo condannato a vivere nell’era post-atomica.
Siamo tutti dei sopravvissuti. Tokyo, fin dall’epoca della sua prima, grande espansione alle soglie del ‘900, è sempre stata una delle città simbolo della modernità, del progresso; rasa al suolo dai bombardamenti sullo scorcio della II Guerra Mondiale, non solo risorge dalle proprie stesse macerie  ma più di ogni altra metropoli contemporanea sembra incarnare il sogno avvenirista e il modello della global city.
[...]
Akira fotografa il momento in cui la “città globale” si sta affermando, uno spazio architettonico e simbolico che racchiude le caratteristiche individuate da Sassen, e in più coglie quello che è il tratto peculiare di Tokyo rispetto a New York o Londra, la proiezione nel futuro. Non a caso, dopo l’opening e i titoli di testa, ci troviamo catapultati nel 2019, a Neo Tokyo. Questa volta lo sguardo è dal basso, sono piedi che si muovono nei vicoli degradati, aree liminali dal punto di vista urbanistico, economico, sociale, la zona d’ombra del sistema capitalistico. E poi la corsa in moto fra i grattacieli, i fari di luce, le rutilanti immagini pubblicitarie: la scena è una citazione fin troppo esplicita di Blade Runner di Ridley Scott, film di culto del 1982. La lettura filologica della città dei replicanti è nota: una Los Angeles distopica del 2019 (!), con tutti i tratti della metropoli asiatica; lo skyliner si dice sia di Hong Kong, ma nell’immaginario si sovrappone a quello di Tokyo, capitale allora emergente, in pieno boom economico. Colpisce qui come in Akira la disturbante assolutizzazione dell’estetica della sgradevolezza, nessun ristoro è concesso allo sguardo, solo ombre cupe, degrado, e l’ubiqua sensazione di pericolo. Perché questa è l’eredità di Hiroshima e Nagasaki, la paura di una forza distruttrice incontrollata scaturita dal cuore stesso di quelle città teoricamente costruite per accogliere e tutelare la vita delle comunità. Le metropoli cresciute fra le due guerre, ispirate ai modelli dei maestri del modernismo – Mies van der Rohe, Frank Lloyd Wright, Le Corbusier – proponevano una marcata separazione degli spazi: edifici governativi, università, aeroporto e stazione ferroviaria centrale, area industriale, zona residenziale…un’articolazione razionale non solo delle architetture, ma anche della vita degli individui, pensata per garantire ordine, sicurezza, normalità. Ma dal centro nevralgico di quelle stesse città, la sede del potere, urbanisticamente collocato e pensato per poter essere riconosciuto come punto di riferimento dell’identità nazionale collettiva, si è sprigionata una incontrollabile potenza distruttrice che ha alterato per sempre l’equilibrio uomo/scienza/natura. Per questo il potere – qualunque forma di potere, politico o economico – nel mondo post-atomico è iconicamente reso in costruzioni grigie, buie, che odorano di morte.
(Cinergie, forthcoming...)

martedì 21 agosto 2012

La fine dell'estate

Mi ero ripromessa di passare più spesso di qui, e invece... Era gennaio, e siamo già in una serata densa e calda di fine estate. Un anno intenso, difficile per tanti versi, generoso per molti altri. A fine gennaio celebravo la nascita di un nuovo libro, in questi giorni stanno prendendo forma e sostanza altre pagine, altri sentieri. In mezzo un altro anno scolastico, voci e volti ritrovati e altri sconosciuti. NipPop2012. Una nuova casa...più grande, per contenere i miei troppi sogni; più mia, per accogliermi. Quando sono stanca, e quando sono elettrizzata. Quando piango, e quando rido. Quando ho voglia di chiudere il mondo fuori dalla porta, e quando ho voglia di farlo entrare. Una casa fra i tetti, affacciata sui colli. Foderata di legno e di libri, pennellata di rosso.
Questo scorcio d'agosto mi sorride fra la via Emilia e il West, nella casa di mia mamma, dei miei nonni. Il contatto quotidiano con la placida deriva confusionale della nonna novantenne, mi riporta a un'altra vita, a un'altra storia. E questa rinnovata consapevolezza della strada percorsa, dei rettilinei, dei tornanti, a sorpresa mi regala l'energia che non riuscivo più a trovare, né dentro né fuori di me. E con essa ritorna la curiosità di dare una sbirciatina dietro quell'angolo, per vedere cosa c'è...;-)

Il grido muto: Una storia crudele di Kirino Natsuo



Kirino Natsuo, Una storia crudele (traduzione di Gianluca Coci), Giano Editore, 2011

Kirino Natsuo, definita da Daisuke Hashimoto “l’unica vera voce innovativa della letteratura giapponese degli ultimi venti anni”, torna ora con uno dei suoi maggiori successi, Una storia crudele.
Una scrittrice che si nasconde sotto uno pseudonimo, un manoscritto che racconta di un’esperienza vissuta, una lettera che mette in dubbio l’attendibilità dei romanzi. Una scomparsa. Dov’è la verità? Cos’è la verità? Ogni parola, ogni frase sembra far vacillare la precedente, in una narrazione che continuamente si nega. La crudeltà è nell’orrore della storia narrata, una bambina di dieci anni, Keiko – la scrittrice stessa – rapita e tenuta segregata per lunghi mesi da Kenji, agghiacciante uomo-bambino, vittima e mostro: nelle sue azioni efferatezza e innocenza si confondono, e su questa anomalia si costruisce l’ambiguo rapporto che si instaura fra i due, destinato a segnare per sempre la vita di Keiko, a inghiottire gli ultimi echi di un’infanzia già minata dalle dolenti lacerazioni della vita famigliare. E la liberazione non segna la fine dell’incubo, spalanca il baratro della curiosità morbosa dei media, dei vicini, degli insegnanti, degli psicologi, degli investigatori. La ragazzina reagisce chiudendosi in un muto isolamento, e l’angoscia, gli interrogativi senza risposta trovano sfogo ed espressione in un mondo di cupe e rampicanti fantasie, che saranno il nocciolo del suo esplosivo successo come scrittrice.
Ancora una volta Kirino ci racconta la storia di una donna, e con la sua scrittura dal chirurgico nitore ne indaga la sofferenza, un male di vivere che affonda le proprie radici in un tempo che precede l’oltraggio, nel selciato plumbeo di una squallida periferia, negli sguardi vuoti di chi guarda ma non vede, nell’anafettività famigliare. Se questa è la quotidianità alla quale Keiko viene brutalmente strappata dal suo rapitore, il mostro dallo sguardo affettuoso, a quale “normalità” potrà tornare? I romanzi sono castelli di bugie, le scrive Kenji molti anni dopo, nella lettera che è il motore del racconto, ma per la bambina violata, che vive nascosta, protetta dalle torri d’avorio del silenzio che lei stessa ha costruito, rappresentano l’unico territorio in cui l’incubo, cioè il suo vero io, può tornare a vivere, pur trasfigurato in visioni ogni volta diverse. Adesso i ricordi si riaffacciano con prepotenza, crudi, densi – il tanfo di marcio dell’alloggio di Kenji, l’impronta della trama dei tatami sotto la pianta dei suoi piedi nudi, il sapore di ruggine dell’acqua nel bricco metallico, l’odore di cibo che verso ora di cena aleggiava lungo il ballatoio esterno – e chiedono con urgenza di essere tradotti in racconto. Il desiderio di liberare finalmente le tante parole mai dette si scontra però con la paura di rivivere l’orrore e forse ancor di più con il timore di guardare dentro di sé con sincerità. Così la confessione si fa a tratti reticente, il contorno degli eventi sfuma, i personaggi proiettano troppe ombre. E proprio questo è il fascino di Una storia crudele, di una narrazione che si dipana nella zona liminale fra il sogno e il reale, e, nel gioco di specchi e di immagini rifratte che costruisce, riesce a tenere avvinto il lettore dalla prima all’ultima riga.
(teoricamente per L'Indice....)

sabato 28 gennaio 2012

Un nuovo libro...

un nuovo libro è come un cucciolo: in un certo senso lo hai fatto nascere, perché sei stata lì...spiando ogni minima, fisica trasformazione - una riga in più, una limatura...tu no, nel cestino...no, aspetta, ti ripesco...sperimento una ricetta e torno...la ricetta di un drink, intendo....
ok, basta, devi nascere, altrimenti l'editore mi spara...che ti manca? il mignolo destro? pazienza, devi nascere...ADESSO!!!!!!
e poi, all'improvviso...le BOZZE! eccolo, è lì: definitivo, impaginato... non sembra lo stesso, ma una forma più vera...quella che volevi e che ti sembrava di non aver realizzato... con qualche refuso (di cui non ti accorgerai neanche adesso), ma è lui...
gioia, folle... per un istante...e poi, VIA... il tuo  demone (non dorme mai, lui...) ti chiama... verso il prossimo libro... scrivere può dare dipendenza. E quando te ne accorgi, è troppo tardi....

Contaminazioni incrociate


Io e Nina siamo seduti uno accanto all’altra sulle poltrone di fondo. Davanti a me, nel buio, si allineano in file le teste della folla di spettatori. Nei cinema di Asakusa c’è molta confusione ma qui gli spettatori sono sempre tranquilli. Le teste così allineate e sempre silenziose mi ricordano un cimitero. Fra quelle tombe scure le spalle tonde e piene delle donne sembrano miraggi di diafane colline anche nel buio. Le mie nari si inebriano alla dolce, indistinta fragranza della loro pelle e del loro profumo[1].

    Assiduo lettore delle più popolari riviste di cinema – Motion Picture Magazine, Shadow Land, Photo Play Magazine – Tanizaki era un habitué delle sale cinematografiche che proiettavano film occidentali a Yokohama e ad Asakusa[2]. Grande ammiratore dell’espressionismo tedesco, in particolare de Il gabinetto del dottor Caligari cui nel 1921 dedicò un breve saggio (Karigari hakase o miru – “Su Il gabinetto del dottor Caligari”), ma anche del cinema di Charlie Chaplin, nella sua produzione degli anni ’20 spesso ritornano i nomi dei suoi interpreti preferiti: Mary Pickford, Geraldine Farrar, Clara Bow, Karen Landis, Pola Negri, Wallace Reed, Paul Wegener, Bebe Daniels, Gloria Swanson.
     Questo suo interesse si tradusse presto in una partecipazione attiva alla stesura di sceneggiature e sui set cinematografici della Taishō katsudō shahin kabukishi kaisha (poi abbreviata in Taikatsu) di Yokohama, fondata nel 1920. La Taikatsu si avvaleva della collaborazione del regista Thomas (Kisaburō) Kurihara, che aveva lavorato negli Stati Uniti, dove aveva interpretato piccole parti. Fu per lui che, nel biennio 1920-21, Tanizaki scrisse diverse sceneggiature: Amateur club (Amachua kurabu, 1920); Katsushika sunago (Le spiagge di Katsushika, da un’opera di Izumi Kyōka, 1920); Hinamatsuri no yoru (La notte della festa delle bambine, 1921); Tsuki no kagayaki (Lo splendore della luna, 1921), Jasei no in (La passione del serpente, dall’Ugetsu monogatari di Ueda Akinari, 1921). E proprio quest’ultima, La passione del serpente, segnò di fatto la frattura tra lo scrittore e la Taikatsu: il primo lamentava che la realizzazione scenica di Kurihara non fosse all’altezza di quanto egli scriveva, e la società, dal canto suo, giudicò la sceneggiatura troppo lenta e lunga[3].
     Ma se la presenza attiva di Tanizaki sui set rappresentò solo una breve parentesi, chiusa troppo in fretta, nell’arco della sua lunga carriera artistica, la passione per il grande schermo continuò ad accompagnarlo, nella vita e nella scrittura.

Come se si facesse improvvisamente pieno giorno, appare il corpo di Bebe Daniels. Nina, la tua figura è avvolta dalla luce della pelle della vamp americana! La sua bianca anima ti inonda di luce. In quel momento, improvvisamente un pensiero si insinua dentro di me. Ciò che ora brucia su questo schermo come un serpente d’argento, la donna che è l’origine di questa pieneza di luce, è una giovane attrice americana che si chiama Bebe Daniels. […] Posso persino supporre che anche la sua vita quotidiana sia luminosa e allegra, non tanto dissimile da quelle commedie, ma nello stesso tempo in cui la sua silhouette muovendosi emana dallo schermo una luce d’argento, al di là di quest’ombra la vera lei dov’è e che cosa fa? Cosa vedono quegli occhi? Quali parole sussurrano quelle labbra? E i suoi piedi quale suolo calpestano?[4]

     Il cinema della Paramount e di De Mille; Betty Compson, Karen Landis; i piedi candidi e belli di Gloria Swanson. Il sogno e la carne, erotismo, sensualità dallo schermo al reale: l’immagine affascinante della vamp di celluloide si confonde con quella che sarà la regina indiscussa della pagina tanizakiana, l’angelo crudele, la torbida femme fatale.
      Ma il cinema non attirava solo l’attenzione degli esteti o degli intellettuali raffinati: in quegli stessi anni irrompeva nella quotidianità della middle-class, sia urbana che provinciale, ancor di più dopo che il terremoto del 1923 aveva di fatto dato il via a un nuovo periodo di crescita e fermento. A Tokyo, il quartiere di Asakusa, da sempre deputato allo svago, viene ricostruito completamente, concepito come un gigantesco parco divertimenti, con un'incredibile concentrazione di cinema, teatri, caffè, ristoranti e altri luoghi di intrattenimento, che vedono mescolarsi artisti e attrazioni legati alla cultura giapponese tanto quanto occidentale.
     Scrive Hayashi Fumiko in Diario di una vagabonda (Hōrōki, 1928-29):


Asakusa è incredibile. Asakusa è un posto fantastico dove andare, in ogni momento. Sotto le sue luci scintillanti, sono una danzante, erratica Katjusha[5].

     Katjusha era la protagonista del romanzo di Tolstoj Resurrezione, tradotto in giapponese con il titolo Fukkatsu, e adattato per il teatro nel 1914. La pièce ebbe un incredibile successo, e tra il 1914 e il 1919 venne replicata ben 444 volte, in Giappone e in Manciuria. Il successo dello spettacolo fu favorito anche dall'incredibile popolarità della canzone che l’accompagnava. Il disco vendette 27.000 copie, un record mai raggiunto prima, tanto che si dice salvò la casa discografica dal fallimento. Il successo del romanzo e dello spettacolo teatrale si allargò anche al cinema, con la versione cinematografica prodotta dalla Nikkatsu, e intitolata appunto Katjusha.

In quel periodo fecero la loro apparizione agli angoli delle strade arroventate dal caldo di Nōkata i manifesti del film Katjusha. Mostravano una giovane donna straniera che batteva contro il finestrino di un treno in una stazione, con una sciarpa drappeggiata attorno al capo, sotto la neve che cadeva a larghi fiocchi. Non molto tempo dopo, la pettinatura alla Katjusha, con la riga in mezzo, era già di moda.

Ah, amata Katjusha, com'è triste dirsi addio
Innalziamo una preghiera al cielo,
prima che questa neve leggera si sciolga.

In un batter d'occhio questa canzone era diventata popolare fra i minatori. Ancora oggi mi riporta alla mente tanti ricordi.
L'amore puro di una donna russa – allora non capivo bene il potere dell'amore, ma quando andai a vedere il film mi trasformai nella più romantica delle ragazze. Prima di allora ero andata a teatro una sola volta, ad ascoltare delle vecchie ballate popolari accompagnate dallo shamisen. Adesso uscivo tutti i giorni per andare a vedere Katjusha. Ero completamente incantata da lei.
Quando attraversavo la piazza con i bianchi oleandri in fiore andando a comprare il combustibile, avrei voluto sempre giocare a Katjusha o al minatore con i bambini del paese. Quando giocavamo al minatore, le bambine fingevano di spingere i carri di carbone, e i bambini fingevano di scavare nel buio della miniera cantando la canzone[6].

     Rievocando un momento della sua infanzia nel Kyūshū, Hayashi coglie una nuova forma di cultura popolare moderna nell'esatto momento in cui sboccia. La moda di Katjusha – romanzo, spettacolo teatrale, film, canzone, immagine sui manifesti – che esplode simultaneamente in tutto il Giappone, vissuta in prima persona dall’autrice, rappresenta la prima realizzazione della possibilità di una cultura di massa, basata sul consumo. Inoltre riflette il nuovo rapporto creatosi fra le province e la metropoli, grazie al quale un prodotto culturale cosmopolita generato a Tokyo è fruibile anche per una ragazzina che vive in una cittadina di minatori in provincia.
     Ma l’esperienza cinematografica in Diario di una vagabonda  si fa anche pratica narrativa, laddove il testo sembra costruirsi applicando alla scrittura la tecnica del montaggio, che consente di incorporare nella pagina letteraria frammenti di varia provenienza. Canzoni popolari, liste della spesa, ma anche i titoli di racconti e di romanzi letti o sentiti, versi e frasi estrapolate dai libri. Il tutto in uno stile ibrido e proteiforme, che attinge a diversi generi, e diversi linguaggi, dando vita a una narrazione che si muove agile sul filo del tempo, dove i ricordi si mescolano al resoconto vivo dell’esperienza del presente, segnata da un ritmo e da una presa quanto mai “cinematografiche”. Il cinema dunque come nuova modalità di esperire la rappresentazione del reale; nelle sue – illlusorie? – immediatezza e velocità, icona o sineddoche della modernità. Così ritorna in La banda di Asakusa (Asakusa kurenaidan, 1929-1930) di Kawabata Yasunari, e in Shanghai (Shanhai, 1928-1932) di Yokomitsu Riichi, che rappresentano l’esito migliore del movimento sperimentale noto come Neopercezionismo (Shinkankakuha)[7]. Profondamente influenzato dalle avanguardie europee – Futurismo, Cubismo, Espressionismo, Dada, Simbolismo e Costruttivismo – attirò l’attenzione di pubblico e critica in primis per la centralità assegnata alla cultura urbana e ai suoi fenomeni – velocità, tecnologia, spazio urbano – e per l’uso iconoclasta della lingua e delle strutture sintattico-grammaticali, in una frammentazione che ancora una volta richiama la tecnica del montaggio cinematografico. Non dimentichiamo inoltre che questi autori, come Tanizaki, per un periodo breve ma significativo, si mossero attivamente sui set, arrivando a fondare una casa cinematografica indipendente sull’onda della fascinazione per l’espressionismo tedesco, le cui prime produzioni proprio in quegli anni erano sbarcate anche in Giappone. Dalla collaborazione fra Kawabata, nelle vesti di sceneggiatore, e il regista Kinugasa Teinosuke nel 1926 vede la luce Una pagina di follia considerato ancora oggi un capolavoro assoluto. Purtroppo, nonostante il successo di critica, a livello finanziario l’esperimento si risolse in un flop, e non ebbe seguito[8].


[1] Tanizaki Jun’ichirō, Ave Maria, cit., pp. 88-89.
[2] Nel 1917 firma anche un saggio, Presente e futuro dell’industria cinematografica (Katsudō shashin no genzai to shōrai), che profetizza un successo imperituro per la settima arte, forma espressiva secondo lui nettamente  superiore al teatro.
[3] Adriana Boscaro, Tanizaki e il cinema, http://asiamedia.unive.it/www/content/tanizaki-e-il-cinema
[4] Tanizaki Jun’ichirō, Ave Maria, cit., pp. 94-95.
[5] Hayashi Fumiko, Hōrōki,  Shinchōsha, Tokyo 2007, p. 124.
[6] Hayashi Fumiko, Hōrōki,  cit., pp. 12-13.
[7] Il termine Shinkankakuha viene tradotto in modi diversi, a seconda dei periodi o degli ambiti di riferimento - "Scuola della nuova sensibilità", "Neosensazionalismo", "Neopercezionismo". E' quest'ultima soluzione che abbiamo deciso di adottare.
[8] Luisa Bienati, Paola Scrolavezza, La narrativa giapponese moderna e contemporanea, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 110-115.

(da "Lo schermo scritto. Letteratura e cinema in Giappone", con Maria Roberta Novielli, Cafoscarina, Venezia 2012)