Per me un Pol Roger rosé (chi mi conosce sa che ho un debole per le bollicine). Per voi? giusto un brindisi, come si addice all'inizio di ogni nuova avventura....

martedì 28 agosto 2012

Dei Nobel, delle quasi omonimie e di altre eresie ...




"Non era il rumore di un aereo. Era il ronzìo di un insetto che mi volava dietro l’orecchio. Più piccolo di una mosca, l’insetto mi ha girato per un po’ davanti agli occhi, poi è scomparso in un angolo della stanza buia.
Sul tavolino bianco rotondo che riflette la luce del soffitto c’è un posacenere di vetro. Dentro si consuma una sigaretta lunga e stretta, sporca di rossetto sul filtro. Sul bord
o del tavolo c’è una bottiglia di vino a forma di pera; sull’etichetta è disegnata una donna bionda con un grappolo d’uva in mano, che si riempie la bocca di chicchi. Anche sulla superficie del vino dentro al bicchiere si riflette tremolante la luce rossa del soffitto. Le gambe del tavolino affondano e scompaiono nella lana folta del tappeto. Di fronte c’è un grande specchio. La donna che vi sta seduta davanti ha la schiena imperlata di sudore. Ha allungato le gambe, e si è sfilata le calze nere arrotolandole lentamente".

(Murakami Ryū, Blu quasi trasparente, incipit)



Se Murakami deve essere, almeno che sia Ryū, ho scritto qualche giorno fa...
Una provocazione? Non del tutto.
Che Haruki non sia il mio autore preferito (non me ne voglia Giorgio...), è cosa nota. Il che non significa che io ne disconosca il ruolo nel turbinio cultural-letterario degli anni '80. 
Ma se dovessi descrivere la sua narrativa in una sola parola, credo sceglierei "inter-nazional-popolare"(ok, sono tre...lo so, ho barato con quei trattini...posso arrivare a due, "global-popolare", rinunciando al sottile retrogusto di Pippo nazionale...). Prolisso, ripetitivo, banale...ogni volta che leggo un suo romanzo, dalla decima riga mi perseguita quella per me sgradevole sensazione di déjà-vu. E' stato così fin dalla prima volta, quando ho letto "Norwegian wood". Con Kerouac accigliato appollaiato sulla spalla. L'unico romanzo che ho assaporato con piacere è stato "Nel segno della pecora". "A sud del confine, a ovest del sole" ho deciso di smettere. Ma non ho saputo resistere al richiamo orwelliano di "1Q84"... giace da mesi abbandonato a p. 50. Conquistando la pool position dei (pochi) libri non finiti della mia vita: "Sangue e arena" e "Il nome della rosa", rimasto ai vertici della classifica per anni (p. 85). Lo so, non si può dire. Ma la tendenza eretica/iconoclasta frizza come champagne nelle mie vene...
Sorvolo sui ritratti femminili che costellano i suoi romanzi: deliziose orecchie pronte ad ascoltare, ad accogliere i tormenti del protagonista (maschio) di turno...silenziose, mute.
Mille volte meglio il disincantato Ryū, provocatorio, scomodo. Tagliente. Con quella stupefacente capacità di vedere un attimo prima dove è che la trama sta per sfilacciarsi in quel tessuto sociale apparentemente intatto, compatto, perfetto...intat-to, compat-to, perfet-to...

Detto questo, cos'è il Nobel? Il Meridiano di Greenwich della letteratura mondiale, risponderebbe Pascale Casanova. Che ogni anno si riposiziona, e, partito dalla vecchia, cara Europa, si è via via spostato - con un po' di diffidenza si intende, sovente zigzagando a passo di gambero - fino ad abbracciare i paesi d'Oltreoceano, e l'Asia. Sull'onda di movimenti, tensioni, lacerazioni legate a questioni di egemonia politica prima ancora che culturale. Ma che cos'è la letteratura mondiale? Il nuovo canone? o piuttosto - come suggerisce Damrosh - una modalità di lettura? cosa determina l'appartenenza o la cittadinanza di un testo letterario? se riconosciamo che il momento della fruizione/circolazione ha in questo caso la precedenza su quello della produzione, e un'opera diventa "mondiale" nel processo di traduzione/distribuzione... allora Haruki for President...
Ammesso naturalmente che il Meridiano di Stoccolma si sposti... un momento... dove? Haruki non vive  più in Giappone da anni...!







sabato 25 agosto 2012

Punto. Linea. Cerchio.


Ecco. questo è quello su cui sto lavorando in questi giorni di fine agosto... Se tutto va bene, diventerà un libro, conclusione di un viaggio iniziato qualche anno fa che da Tokyo mi ha portato a Berlino, a Toronto, a Brasilia. Amo le visioni geometriche di Le Corbusier, le aeree e algide trasparenze di Mies van der Rohe, le architetture delle metropoli reali, dal modernismo sensuale di Oscar Niemeyer alle curve di Calatrava. Mi intriga il modo in cui vengono traslate e reinterpretate nel cinema, e nella letteratura, laddove lo spazio si fa corpo che interagisce con altri corpi, umani, post-umani, monadi disorientate o identità fluidificate in quel magma indistinto che chiamiamo folla. 






Un assaggio della letteratura giapponese contemporanea, dagli anni ’80 ai giorni nostri, con particolare attenzione al rapporto fra scrittura e spazio urbano. Un percorso letterario e metropolitano il cui filo conduttore è l’idea che ogni testo possa essere letto come un “romanzo urbano” (toshi shōsetsu), una narrazione nella quale spazio della città e spazio della scrittura continuamente si intrecciano e si intersecano, e insieme contribuiscono alla costruzione della forma e del senso.
Il noto critico Maeda Ai (2004), nello specifico, ha individuato tre assi sui quali esplorare le interconnessioni di forma e senso fra spazio metropolitano e testo:
1.Asse simbolico, sul quale si collocano lo spazio privato della casa da un lato, e dall’altro i luoghi pubblici, legati a specifici contesti sociali o realtà istituzionali.
2.Asse paradigmatico, l’asse cioè delle opposizioni binarie inside/outside, città/campagna, centro/periferia.
3.Asse sintagmatico, ovvero delle connessioni, sistemi di trasporti, reti stradale, ferroviaria, metropolitana.
Nella scrittura del Giappone odierno, frutto di una cultura per definizione metropolitana, queste tre dimensioni molto spesso convivono e diventano i punti cardinali dell’interpretazione, consentendo non solo di evidenziare i tratti salienti di una letteratura che in anni recenti ha saputo parlare a un pubblico sempre più vasto e lontano dai confini nazionali, ma anche di seguire il rapido mutare ed evolversi di una Tokyo divenuta simbolo ed epitome di una contemporaneità che sempre più si confonde col futuro.
(to be continued...)

giovedì 23 agosto 2012

Cartografie della post-apocalissi...


Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.
(Italo Calvino, Le città invisibili)


La città, distrutta, deformata, rinata dalle proprie ceneri, al tempo stesso metafora e nemesi di un sistema e di un potere fatalmente votati a un destino di implosione/esplosione, è senz’altro una delle immagini più potenti, disturbanti e presenti del cinema di animazione giapponese contemporaneo. Da Akira di Katsuhiro Ōtomo (1988) a Metropolis di Rintarō (2001), per limitarci agli esempi più famosi, la metropoli si costruisce come fulcro della narrazione del fallimento della modernità, lo stesso che ha condannato l’umanità a vivere nel limbo sospeso dell’era post-atomica. Edifici che dovrebbero racchiudere e proteggere le vite degli individui e della comunità, articolare gli spazi del pubblico e del privato, si rivelano inadeguati, ambigui, inospitali, porosi. E il rapporto fra l’uomo e l’architettura urbana si fa incerto, e fragile.
La mappa metropolitana di Tokyo – riferimento ossessivamente presente, citazione esplicita o metonimia – si fa ora cartografia di uno spazio simbolico, e in gioco non è solo la distribuzione architettonica delle aree urbane, quanto la rappresentazione iconica del controllo sullo spazio geografico e sulla comunità che lo abita a opera dei meccanismi politici, e la costruzione di nuove gerarchie, valori e poteri.
Film di culto, psichedelico e visionario, Akira esplora uno dei temi ricorrenti dell’animazione giapponese di fantascienza, la metamorfosi del corpo. La pellicola si snoda fra due distruzioni, quella di Tokyo, al termine della III Guerra Mondiale, il 16 luglio 1988 (data della première del film), e quella di Neo Tokyo, risorta dalle macerie 31 anni dopo e teatro della vicenda. Al centro, la figura di Testuo, membro di una delle gang di motociclisti che imperversano per le strade della città.
Legato al capo della banda, Kaneda, da un’amicizia profonda che risale ai tempi della loro difficile infanzia in orfanotrofio e che suscita in lui un mix di sentimenti contraddittori e confusi, sospesi fra una sorta di dipendenza e il risentimento, è un adolescente fragile, fatalmente destinato a essere manipolato da una scienza al servizio delle oscure mire di un potere politico tentacolare, e a diventarne strumento di devastazione e morte. Nella sua trasformazione consiste il nucleo narrativo del film: prigioniero nel laboratorio segreto degli scienziati governativi che con i loro esperimenti scatenano il suo potenziale psichico, Tetsuo riesce a fuggire, ossessionato da Akira, un’entità ambigua con la quale in un ciclo di orrifiche mutazioni – che incidentalmente ricordano un altro cult della cinematografia giapponese dello stesso anno, Testuo di Tsukamoto Shin’ya – sembra passo dopo passo identificarsi. Nel finale, scompare, trascinato nel destino di Akira e degli altri mutanti psichici.
Nell’opening la città ci viene mostrata in una rapida sequenza a volo di uccello: nella luce dorata del sole, la grande arteria stradale multicorsia, i palazzi che la fiancheggiano, fino ad abbracciare con lo sguardo che si alza veloce l’intera area metropolitana dominata da un pugno di grattacieli grigi, a suggerire la presenza di un potere (politico) che allunga la sua ombra minacciosa sulla comunità. All’improvviso una luce incandescente, dalla forma perfettamente semisferica – plastica stilizzazione del fungo atomico – avanza dai sobborghi fino a divorare l’intera città, strade, palazzi, grattacieli. Una scena della durata di una manciata di secondi, eppure dilaniante per lo specifico legame che instaura tra spazio, memoria e identità. Tokyo, Hiroshima e Nagasaki: prodotti della storia che, integrati e più e più volte riproposti nei meccanismi culturali, ne sono riemersi trasformati in significanti universali, per cui a essere in gioco non è ormai l’identità “giapponese”, ma quella dell’uomo condannato a vivere nell’era post-atomica.
Siamo tutti dei sopravvissuti. Tokyo, fin dall’epoca della sua prima, grande espansione alle soglie del ‘900, è sempre stata una delle città simbolo della modernità, del progresso; rasa al suolo dai bombardamenti sullo scorcio della II Guerra Mondiale, non solo risorge dalle proprie stesse macerie  ma più di ogni altra metropoli contemporanea sembra incarnare il sogno avvenirista e il modello della global city.
[...]
Akira fotografa il momento in cui la “città globale” si sta affermando, uno spazio architettonico e simbolico che racchiude le caratteristiche individuate da Sassen, e in più coglie quello che è il tratto peculiare di Tokyo rispetto a New York o Londra, la proiezione nel futuro. Non a caso, dopo l’opening e i titoli di testa, ci troviamo catapultati nel 2019, a Neo Tokyo. Questa volta lo sguardo è dal basso, sono piedi che si muovono nei vicoli degradati, aree liminali dal punto di vista urbanistico, economico, sociale, la zona d’ombra del sistema capitalistico. E poi la corsa in moto fra i grattacieli, i fari di luce, le rutilanti immagini pubblicitarie: la scena è una citazione fin troppo esplicita di Blade Runner di Ridley Scott, film di culto del 1982. La lettura filologica della città dei replicanti è nota: una Los Angeles distopica del 2019 (!), con tutti i tratti della metropoli asiatica; lo skyliner si dice sia di Hong Kong, ma nell’immaginario si sovrappone a quello di Tokyo, capitale allora emergente, in pieno boom economico. Colpisce qui come in Akira la disturbante assolutizzazione dell’estetica della sgradevolezza, nessun ristoro è concesso allo sguardo, solo ombre cupe, degrado, e l’ubiqua sensazione di pericolo. Perché questa è l’eredità di Hiroshima e Nagasaki, la paura di una forza distruttrice incontrollata scaturita dal cuore stesso di quelle città teoricamente costruite per accogliere e tutelare la vita delle comunità. Le metropoli cresciute fra le due guerre, ispirate ai modelli dei maestri del modernismo – Mies van der Rohe, Frank Lloyd Wright, Le Corbusier – proponevano una marcata separazione degli spazi: edifici governativi, università, aeroporto e stazione ferroviaria centrale, area industriale, zona residenziale…un’articolazione razionale non solo delle architetture, ma anche della vita degli individui, pensata per garantire ordine, sicurezza, normalità. Ma dal centro nevralgico di quelle stesse città, la sede del potere, urbanisticamente collocato e pensato per poter essere riconosciuto come punto di riferimento dell’identità nazionale collettiva, si è sprigionata una incontrollabile potenza distruttrice che ha alterato per sempre l’equilibrio uomo/scienza/natura. Per questo il potere – qualunque forma di potere, politico o economico – nel mondo post-atomico è iconicamente reso in costruzioni grigie, buie, che odorano di morte.
(Cinergie, forthcoming...)

martedì 21 agosto 2012

La fine dell'estate

Mi ero ripromessa di passare più spesso di qui, e invece... Era gennaio, e siamo già in una serata densa e calda di fine estate. Un anno intenso, difficile per tanti versi, generoso per molti altri. A fine gennaio celebravo la nascita di un nuovo libro, in questi giorni stanno prendendo forma e sostanza altre pagine, altri sentieri. In mezzo un altro anno scolastico, voci e volti ritrovati e altri sconosciuti. NipPop2012. Una nuova casa...più grande, per contenere i miei troppi sogni; più mia, per accogliermi. Quando sono stanca, e quando sono elettrizzata. Quando piango, e quando rido. Quando ho voglia di chiudere il mondo fuori dalla porta, e quando ho voglia di farlo entrare. Una casa fra i tetti, affacciata sui colli. Foderata di legno e di libri, pennellata di rosso.
Questo scorcio d'agosto mi sorride fra la via Emilia e il West, nella casa di mia mamma, dei miei nonni. Il contatto quotidiano con la placida deriva confusionale della nonna novantenne, mi riporta a un'altra vita, a un'altra storia. E questa rinnovata consapevolezza della strada percorsa, dei rettilinei, dei tornanti, a sorpresa mi regala l'energia che non riuscivo più a trovare, né dentro né fuori di me. E con essa ritorna la curiosità di dare una sbirciatina dietro quell'angolo, per vedere cosa c'è...;-)

Il grido muto: Una storia crudele di Kirino Natsuo



Kirino Natsuo, Una storia crudele (traduzione di Gianluca Coci), Giano Editore, 2011

Kirino Natsuo, definita da Daisuke Hashimoto “l’unica vera voce innovativa della letteratura giapponese degli ultimi venti anni”, torna ora con uno dei suoi maggiori successi, Una storia crudele.
Una scrittrice che si nasconde sotto uno pseudonimo, un manoscritto che racconta di un’esperienza vissuta, una lettera che mette in dubbio l’attendibilità dei romanzi. Una scomparsa. Dov’è la verità? Cos’è la verità? Ogni parola, ogni frase sembra far vacillare la precedente, in una narrazione che continuamente si nega. La crudeltà è nell’orrore della storia narrata, una bambina di dieci anni, Keiko – la scrittrice stessa – rapita e tenuta segregata per lunghi mesi da Kenji, agghiacciante uomo-bambino, vittima e mostro: nelle sue azioni efferatezza e innocenza si confondono, e su questa anomalia si costruisce l’ambiguo rapporto che si instaura fra i due, destinato a segnare per sempre la vita di Keiko, a inghiottire gli ultimi echi di un’infanzia già minata dalle dolenti lacerazioni della vita famigliare. E la liberazione non segna la fine dell’incubo, spalanca il baratro della curiosità morbosa dei media, dei vicini, degli insegnanti, degli psicologi, degli investigatori. La ragazzina reagisce chiudendosi in un muto isolamento, e l’angoscia, gli interrogativi senza risposta trovano sfogo ed espressione in un mondo di cupe e rampicanti fantasie, che saranno il nocciolo del suo esplosivo successo come scrittrice.
Ancora una volta Kirino ci racconta la storia di una donna, e con la sua scrittura dal chirurgico nitore ne indaga la sofferenza, un male di vivere che affonda le proprie radici in un tempo che precede l’oltraggio, nel selciato plumbeo di una squallida periferia, negli sguardi vuoti di chi guarda ma non vede, nell’anafettività famigliare. Se questa è la quotidianità alla quale Keiko viene brutalmente strappata dal suo rapitore, il mostro dallo sguardo affettuoso, a quale “normalità” potrà tornare? I romanzi sono castelli di bugie, le scrive Kenji molti anni dopo, nella lettera che è il motore del racconto, ma per la bambina violata, che vive nascosta, protetta dalle torri d’avorio del silenzio che lei stessa ha costruito, rappresentano l’unico territorio in cui l’incubo, cioè il suo vero io, può tornare a vivere, pur trasfigurato in visioni ogni volta diverse. Adesso i ricordi si riaffacciano con prepotenza, crudi, densi – il tanfo di marcio dell’alloggio di Kenji, l’impronta della trama dei tatami sotto la pianta dei suoi piedi nudi, il sapore di ruggine dell’acqua nel bricco metallico, l’odore di cibo che verso ora di cena aleggiava lungo il ballatoio esterno – e chiedono con urgenza di essere tradotti in racconto. Il desiderio di liberare finalmente le tante parole mai dette si scontra però con la paura di rivivere l’orrore e forse ancor di più con il timore di guardare dentro di sé con sincerità. Così la confessione si fa a tratti reticente, il contorno degli eventi sfuma, i personaggi proiettano troppe ombre. E proprio questo è il fascino di Una storia crudele, di una narrazione che si dipana nella zona liminale fra il sogno e il reale, e, nel gioco di specchi e di immagini rifratte che costruisce, riesce a tenere avvinto il lettore dalla prima all’ultima riga.
(teoricamente per L'Indice....)