Per me un Pol Roger rosé (chi mi conosce sa che ho un debole per le bollicine). Per voi? giusto un brindisi, come si addice all'inizio di ogni nuova avventura....

domenica 29 maggio 2011

Kawase Naomi, Hotaru/2

(pp. 21-24)

Nemmeno la scorsa notte sono riuscita a dormire.
Il suono della pioggia che continua a cadere, sottile, mi riporta alla memoria frammenti del passato. La realtà, proprio come il sogno, penetra nella pelle per non andarsene più. Anzi, si conficca e scava nella mia carne, disordinatamente, senza riguardo. Come un uomo che mi penetri con tutta la sua forza prima ancora che io sia bagnata.
Ho la nausea. Cerco di prendere le distanze dai miei pensieri sconnessi. Potessi davvero fuggire, così da stare più tranquilla…Invece l’aria umida e pesante grava su di me, mi tiene legata, e non riesco a muovermi.
Uno stato che si protrae già da diverse settimane.
Chissà, forse sarò incinta…
Da quando ho cominciato a pensarci, mi avvolge un’emozione incontrollabile.
Dentro di me c’è la vita… Una realtà terribile solo a pensarci. Non voglio ammetterla, cerco in ogni modo di sfuggirla. Ma più ci provo, più sprofondo. Questa realtà mi ha afferrato come sabbie mobili e non mi lascia più andare.
Ho affidato le mie ultime speranze a un test di gravidanza di quelli che si trovano dappertutto. L’ho estratto dalla scatola. Sono andata in bagno stringendo tra le dita lo stick lungo appena venti centimetri.
La pioggia scroscia sulla finestrella della toilette. Di tanto in tanto violente raffiche di vento scuotono fragorosamente la recinzione di lamiera che divide la mia casa da quella del vicino.
Nello stick c’è un forellino. Se si tinge di rosso, le mie speranze andranno in frantumi.
Con calma, ho fatto la pipì sullo stick. Per la risposta, solo cinque minuti. Eppure il tempo dell’attesa mi opprime.
Non è possibile che un bambino possa aprire una speranza solo perché con la sua nascita trasforma questo mio fastidioso corpo di carne in quello di una madre. La sua comparsa può causare solo disperazione.
Ho paura di infliggere al mio bambino i maltrattamenti che ho subito da mia madre. Un pensiero, una negatività senza fine che continua a dilatarsi, quando infine la recinzione in lamiera al confine con la casa vicina, scossa da una raffica di vento, crolla con un gran fracasso.
A quel rumore torno in me; esco dal bagno in preda all’agitazione, stringendo lo stick fra le dita. Torno nella mia stanza cercando di non guardare il forellino, e lo chiudo con violenza in una scatola. Una sensazione soffocante, come se fossi inseguita. Calma, calma… mi ripeto. La sensazione diventa sempre più forte.
Prendo il portasigarette e l’accendino sul letto, tiro fuori una sigaretta, la porto alle labbra e l’accendo.
Lunghe boccate, e il fumo mi impregna tutto il corpo. Un fumo bianco che dall’estremità della sigaretta sale verso il soffitto. Prima di arrivare a toccarlo, cambia d’improvviso direzione,  e si spande nella stanza.
Per un po’ ritrovo la calma.

Kawase Naomi, Hotaru

Daiji è un giovane artigiano, che vive e lavora nell’antica città di Nara; Ayako è una spogliarellista e divide l’appartamento con Kyoko, la donna che l’ha allevata dopo la morte prematura della madre. Tra i due nasce l’amore, ma il momento è difficile per entrambi: Daiji ha da poco perduto il nonno, e Ayako è reduce da una delusione amorosa e dalla traumatica esperienza di un aborto. La ragazza d’altronde non ha mai avuto vita facile: figlia di genitori divorziati, ha dovuto ancora in tenera età affrontare il dolore per il suicidio della madre. In seguito a una retata nel locale dove lavora, Ayako viene messa sotto sorveglianza. Decide allora di tornare al villaggio natio, dalla nonna che non vede da anni. Ma all’arrivo scopre che l’anziana donna è morta da poco. Il dolore per la perdita è tale che nemmeno la presenza di Daiji riesce a esserle di conforto; tanto più che al rientro in città l’attende un’altra prova: Kyoko ha una malattia incurabile. Un susseguirsi di sofferenze durissime, che tuttavia la giovane donna affronta con coraggio, riuscendo alla fine con l’aiuto di Daiji a dare una svolta alla propria vita.

(pp. 11-16)
L’estate dell’anno successivo, mia madre lasciò lo Shikoku, e mi portò con sé.
Il paesaggio familiare si allontanava sempre più. Nelle risaie le piantine verdi ondeggiavano mosse da sporadiche raffiche di vento. Il monte Iino, che domina il piccolo villaggio, nella forma ricorda il Fuji, e infatti lo chiamavano Sanukifuji.
A me quel paesaggio piaceva molto. Avevo l’impressione che sarebbe stato parte di me per sempre. Chissà a mia madre come sembrava… La sua espressione quando sollevò d’improvviso lo sguardo e, assorta, lo fissò chissà dove, verso un luogo che non conoscevo... Estranea alle mie emozioni, non si era nemmeno voltata a guardare quel villaggio di cui non si poteva non innamorarsi. Facevo fatica a contenere l’inquietudine e le trotterellavo al fianco, con lei che mi tirava per la mano.
Una volta partite per la città, notò il mio viso accaldato e mi comprò un cappello di paglia con un nastro rosso. Mentre aspettavamo il traghetto, mi prese anche un ghiacciolo. Era stranamente più affettuosa del solito. Leccavo il ghiacciolo, e seguivo con lo sguardo la sua figura, sbirciando da sotto la tesa del cappello. Stringeva la cornetta del telefono e parlava con qualcuno. Tornò da me nella confusione della sala d’attesa, fra l’andirivieni della folla, e in quel momento avvertii chiara la sensazione che esistesse un’altra persona che lei amava più di quanto amasse me.
Gli occhi di mia madre attraversavano il mio corpicino di carne, quasi a voler riconfermare l’esistenza della donna che vive nella madre. Io ero la prova del fatto che lei era venuta alla luce come donna, con il respiro affannoso dell’animale che desidera il corpo del maschio. La madre che riconosceva l’esistenza del mio io non c'era più.
Il traghetto, dopo aver lasciato il porto di Takamatsu, virò e cominciò a prendere velocità. La scia bianca e spumeggiante sembrava un ponte sospeso fra me e il mondo. Non riuscivo a smettere di fissarla. Il sole tramontò poco dopo, e il cielo da blu si fece nero. Il frastuono incessante del motore  continuava ad aumentare. Osservavo con attenzione, eppure riuscivo a distinguere solo vagamente la linea di confine tra il Mare Interno e il cielo. Provavo la rassicurante sensazione di essere il solo essere vivente in quella profonda oscurità. Niente sarebbe più cambiato. Proprio quando avrei voluto essere anch’io inghiottita dal buio e diventarne parte, in direzione della linea dell’orizzonte, appena distinguibile, una grande sagoma scura spiccò un balzo per poi scomparire nel mare.
“Una balena?”
Mi tornò in mente una storia che avevo trovato nel dizionario di giapponese la prima volta che l’avevo consultato, riguardo a una nuvola a forma di balena bianca che fluttua nel cielo. Però in quel caso si trattava davvero di una nuvola bianca che si sposta nel blu. All’apparenza questa le somigliava, eppure la balena che avevo appena intravisto sul filo dell’orizzonte era completamente diversa.
La mia balena viveva nel mondo cupo dell’oscurità, dove anche una sagoma candida si trasforma in un oggetto nero come la pece. A prima vista, finiva inghiottita dal mondo, ma in realtà, in virtù di una qualche forza straordinaria che si sprigionava da dentro di lei, la sua esistenza diventava qualcosa di assoluto. Avevo l’impressione che la balena attirasse il mondo a sé, e mi sentivo orgogliosa che mi facesse da scorta.
“Cosa stai facendo?”
Mi girai con un sussulto, e incrociai gli occhi assonnati di mia madre, i capelli sciolti scompigliati dalla brezza marina. Avrei voluto parlarle della balena che avevo appena visto, ma non trovavo le parole giuste. Un attimo dopo, senza che io le avessi risposto, la mamma mi attirò a sé, e per un po’ restammo a fissare il mare nero.
A contatto della mia guancia, il suo braccio era freddo. Volevo farle vedere la balena nera, e quindi aspettai che riapparisse, ma non tornò più.

Il giorno dopo, o l’anno successivo… i miei ricordi sono frammentati. Mi trovavo alla stazione. La figura di mia madre, di spalle, si allontana lungo il binario.
Finalmente sarò sola. Quando ormai la sua immagine non si distingue più, mi assale la sensazione di essermi liberata di una seccatura che mi aveva ossessionato troppo a lungo, ma, nello stesso tempo, provo un senso di vuoto, come se la mia vita si stesse dissolvendo. Non sono triste, eppure le lacrime prendono a scorrere, una dopo l’altra.
Me ne accorgo all’improvviso: c’è qualcuno vicino a me. Si tratta di una donna dai lunghi capelli castani, con un vestito sgargiante; completamente diversa da mia madre. Il suo profumo mi stordisce. Una fragranza che mi da alla testa, e va e viene insieme al suo respiro.
“Non serve piangere!”
Le sue parole suonano gentili. Le sue mani calde asciugano le lacrime che mi scorrono lungo le guance.
Chi è?
Una domanda spontanea. Ma forse non importava chi fosse. Certo è che il tepore di quelle mani calde a contatto delle mie guance aveva instillato nel mio corpo una nuova energia. La sensazione distinta della sua mano che avvolgeva con forza la mia.
“Andiamo.”
E ci incamminiamo.




Kawase Naomi


“…Il cinema…realtà violentemente avvinta alla memoria.
Attanaglia l’anima di chi vive nei nostri ricordi, si avvinghia al tempo…”


Kawase Naomi, giovane regista della nuova generazione, nasce nella prefettura di Nara nel 1969. Dopo la separazione dei genitori, viene allevata dai nonni, due persone che incarnano ai suoi occhi una tradizione culturale destinata a intridere molta della sua produzione. Dopo il liceo, si trasferisce a Osaka per studiare fotografia, e nello stesso istituto dopo il diploma, insegna per un periodo di quattro anni. La prima esperienza nel mondo delle immagini, con una 8 mm, è del 1988, e già suggerisce in fase embrionale la dimensione intima e passionale, che caratterizzerà la sua intera filmografia. Dopo soli quattro anni, nel 1993, il primo riconoscimento: il «Premio esordienti» al Festival Image Forum di Tokyo. È tuttavia nel 1997 che sul suo nome si concentra l’attenzione internazionale: il premio Fipresci al Festiva1 Internazionale di Rotterdam e la Caméra d’Or al Festival di Cannes, entrambi ottenuti con Moe no Suzaku, la segnalano come una delle più interessanti autrici del cinema contemporaneo e danno i1 via a una lunga serie di riconoscimenti. E' tuttavia con il successivo Sharasōju (2003), che il cinema della regista trova l'equilibrio perfetto tra finzione e autobiografia, con un'intensità e una forza espressiva che non lasciano tregua. In Italia, nel 2002, le è stata dedicata una personale nell’ambito dell’Infinity Festival di Alba.
Per questa giovane regista, il cinema nasce dall’esigenza di lasciare una traccia del proprio passaggio nel mondo. Naomi dunque, e la realtà, un susseguirsi di immagini – persone, cose, ma anche animali, piante – che la presenza dichiarata dell’obiettivo pone al centro dell’attenzione, trasformandoli. Naomi è nel contempo autrice e oggetto della ripresa. La sua vicenda, la ricerca delle proprie radici e della propria identità, di figlia, di adulta e di donna, sul piano della realizzazione filmica si intreccia con una molteplicità di immagini che raccontano altre vite, talvolta un altro tempo. Non solo autobiografia dunque, ma anche documentario, e fiction, perché è la vita stessa che lo chiede. E’ necessario prendere le distanze dalle paure e dai desideri più profondi per poterne vedere - e mostrare - nella loro interezza il libero fluire.
L’arte di Naomi, lavoro dopo lavoro, nel momento in cui la giovane donna che è diventata riesce ad affrontare la bimba abbandonata del passato, acquisisce una nuova dimensione, la profondità temporale. Il divorzio dei genitori, la separazione dal padre - uno yakuza, cioè un membro della potente mafia giapponese - hanno segnato dolorosamente la sua vita, provocando una frattura profonda che deve essere ricomposta: Kawase deve re-imparare il linguaggio degli affetti famigliari, perché riconciliarsi con le figure genitoriali significa reimmettersi nella corrente di quel tempo lineare che scivola dolcemente dalla nascita verso la morte. Opere della piena maturità artistica, prima film, poi romanzi, Moe no Suzaku (Suzaku, 1997 ) e Hotaru ( Lucciole, 1999; 2001 ) rappresentano il momento della riflessione, della rielaborazione del materiale autobiografico nella fiction. Qui è come se Naomi, con tutto il suo bagaglio di sofferenze, gioie, interrogativi più o meno irrisolti, si frantumasse in tante figure diverse. Il tema centrale è la famiglia, una famiglia in vario modo sempre privata della presenza di un padre. In una cultura nella quale la donna politicamente, ideologicamente e simbolicamente è prima di tutto figlia, la scelta stessa di realizzare una nuova consapevolezza attraverso la sovversione dei tradizionale ruoli di genere costringe Kawase a affrontare la figura paterna, ingombrante, incombente, ingigantita dalla sua stessa assenza.
In Hotaru invece, è il rapporto con la madre – e con la maternità – a essere centrale. Il momento della ricerca è passato, il trauma dell’abbandono superato: l’artista si è già riconciliata con il proprio ruolo di figlia, ed è pronta a percorrere il cammino che la porterà alla piena maturazione come donna.

lunedì 23 maggio 2011

L'iconoclastia del presente

Divagazioni  a proposito di Tokyo Decadence di Murakami Ryū.

“Ho la testa piena di vermi” continuavo a pensare, e guardandomi allo specchio con la cuffia ho cominciato a convincermi che fosse vero. Mi dicevo che il mio corpo non era altro che capezzoli e la carne lì in basso, e sentivo davvero solo queste parti ingigantite dentro di me: come nel mare antartico o in altri posti del genere emerge solo la punta dell’iceberg così anche in me spuntano solo i capezzoli e le labbra lì sotto. (Ryu Murakami, Tokyo Decadence, Mondadori, Milano 2004, p. 11).

Scrittore e regista controverso e iconoclasta, Murakami Ryū 村上龍 (1952-) si impone all’attenzione della critica quando nel 1976 pubblica il suo primo libro,  Kagirinaku tōmei ni chikai burū 限りなく透明に近いブルー (Blu quasi trasparente), ritratto crudo e spietato della generazione figlia del boom economico, smarrita in uno psichedelico viaggio, nel corso del quale tutto – sesso, droga, violenza – viene vissuto senza freni. Negli anni successivi, Murakami conferma il suo talento: i suoi lavori, oltre a godere di un sempre crescente successo di pubblico, vengono puntualmente insigniti dei più prestigiosi riconoscimenti. Topāzuトパーズ (Tokyo Decadence, 1988) è una raccolta di racconti che ci introduce ancora una volta al lato oscuro, nascosto di una società solo in apparenza armonica. A guidarci in questo percorso, in un’atmosfera satura di erotismo morboso, le voci delle giovani protagoniste: prostitute, donne  ridotte a pura carne, a oggetti di piacere, di scambio, in un mondo dominato da un dilagante consumismo che fagocita nell’urgenza del possesso ogni grumo di umanità.,

L’uomo ha acceso la tv a tutto volume e l’ha guardata finché io non ho smesso di piangere, poi mi ha tolto dalla bocca la sciarpina tutta bagnata e mi ha sollevato la gonna. Ha preso il mio rossetto dal tavolo e, dopo aver sputato, me lo ha messo tutt’intorno al buco del sedere, poi ci ha infilato lo stick. Ho gridato “Ahi!”, allora lui mi ha rimesso in bocca la sciapina che mi pendeva dalla bocca […] Gli altri due mi hanno estratto il rossetto dal buco, e uno ci ha infilato un dito piegandolo a uncino e costringendomi ad alzare il culo. Poi mi hanno violentata. (ibidem, p. 129).

Ferocia, sadomasochismo, perversione: una storia dopo l’altra, Murakami ci racconta nel suo stile asciutto, nel suo linguaggio di chirurgica precisione, come vengano abbattute nuove barriere dell’umiliazione, del degrado fisico e morale,. Nessuna metafora, nessun eufemismo, nessun orpello, in un crescendo di decadenza e cinismo nei quali corpo e anima sembrano annullarsi, e l’ultimo baluardo d’innocenza – i ricordi di infanzia, di un’adolescenza in cui era ancora possibile sognare l’amore puro – sono destinati a essere spazzati via.

Mi è tornato in mente che quando mettevo su OFF l’interruttore della lampada al neon dell’aula di musica pensavo a quanto sarebbe stato tremendo veder apparire nell’oscurità il terrificante muso di una scimmia. Ho acceso la luce della camera e mi sono guardata intorno lentamente. Tutte le cose mi apparivano deformate, e in ogni oggetto vedevo il muso schiacciato di una scimmia. Quel muso era più brutto della mia faccia, e mi fissava. Sul forno, dietro al frigo, sulla tavola, nella tazzina da caffè, sui reggiseni regalatimi dalla donna, sulla parete, sulla tenda e pure sul grattacielo che vedevo lontano, fuori dalla finestra, c’era sempre quel muso schiacciato di scimmia a osservarmi.
Da quel momento non mi avrebbe più dato tregua. (ibidem, p. 130).

Eppure, qui come in altri lavori, i personaggi di Murakami sembrano in qualche modo preferire il mondo violento, estremo dei bassifondi, alla quotidianità soffocante, alla gabbia vischiosa del perbenismo e della norma sociale. Spesso accostato a Ballard, sulla sua pagina a dominare è l’estremo, l’eccesso assurto a parametro estetico e morale, unica forza in grado di arrestare il flusso della banalità, unica possibile forma di resistenza all'appiattimento della vita contemporanea. Le crepe sottili che percorrono la superficie solo in apparenza integra di un tessuto sociale in realtà rarefatto e fragile, vengono aperte, slabbrate  con brutalità, per far emergere  il lato sordido, il male. La vera provocazione di Murakami non è nelle sue immagini scioccanti, nelle righe che stillano fluidi corporei, sangue, sperma, sudore, nelle visioni indotte dalla droga o dall’alcol. L’iconoclastia  è nel dubbio che insinua: se ancora esiste un frammento di umanità, è qui, nel degrado, nel fondo dell’abiezione.
Il sesso estremo è il filo conduttore che lega la ormai vasta produzione di questo scrittore. Si può parlare di pornografia? Topāzu è forse fra i suoi romanzi quello in questo senso più esplicito: frammenti di vita, ragazze giovanissime che scivolano da una stanza d’albergo all’altra, e in questo peregrinare allucinato abdicano alla propria dignità. Uno spaccato metropolitano spietato. Se c’è pornografia, è negli occhi dei clienti. Manager, impiegati, uomini in fuga dalla propria normalità. Il loro è uno sguardo che non riconosce alcune umanità a quei corpi di donna, è uno sguardo pornografico, perché uccide.  
  
(da Lo schermo scritto, forthcoming)


sabato 21 maggio 2011

Intersezioni Cyborg



  Figura che istintivamente ascriviamo al futuro, la figura del cyborg ci parla invece del presente, della società contemporanea, delle sue trasformazioni, dei sogni che le muovono, delle paure che ne scaturiscono. Strumento imprescindibile per l’esplorazione dei nuovi paradigmi della soggettività, amalgama di organico e di tecnologico, confonde i criteri modernisti su cui  questa si fonda, nello specifico sessualità e unicità/singolarità. Icona delle culture pop del Giappone contemporaneo  incentrate sui temi dell’apocalisse, della sopravvivenza, dell’irreversibile perdita dell’innocenza, ci riporta all'inevitabile confronto con il bombardamento atomico e la possibilità reale della distruzione globale in esso implicita, all'esplorazione della natura intrinsecamente ambigua della tecnologia.

“Cosa significa essere salvi per le persone che vivono nel presente dell’era atomica?” si chiede Hayashi Kyōko (1930-). E ancora, Hara Tamiki (1905-1951): 
         
         Questi sono esseri umani

Questi sono esseri umani,
Guarda come la bomba li ha trasformati.
Le carni spaventosamente rigonfie,
Uomini e donne un’unica forma.
Ah! Da quell’insieme di pezzi anneriti,
Voci sfuggono dalle labbra gonfie dei visi infiammati:
“Aiuto!”.
Parole fragili, silenziose.
Questi sono esseri umani,
I volti di esseri umani.

 
         Il corpo hibakusha è un corpo, lacerato, esposto, improvvisamente permeabile alla contaminazione, alla metamorfosi. Comunque ibrido. Come il cyborg, biotico e meccanico, soggetto che non può esperirsi e percepirsi come “uno”, ma nemmeno può considerarsi “duplice”, anche soltanto perchè i confini non possono essere rifissati.
        “Umanità liquida”, prepontemente sessuata laddove in scena è un corpo di donna. Femminizzazione/inferiorizzazione dell'Altro? Ulteriore, estremo esito di una società sessista che rifiuta di fluidificarsi? Forse. Ma Donna Haraway nel suo Cyborg Manifesto (1985) provocatoriamente ci invita a uno sguardo diverso.

“Le immagini cyborg possono indicarci una via di uscita dal labirinto di dualismi attraverso i quali abbiamo spiegato a noi stessi i nostri corpi e i nostri strumenti. Questo è il sogno non di un linguaggio comune, ma di una potente eteroglossia infedele. Significa costruire e distruggere allo stesso tempo macchine, identità, categorie, relazioni, storie spaziali. Anche se entrambe sono intrecciate nella danza a spirale, preferisco essere cyborg che dea.”

Perchè no?

domenica 15 maggio 2011

Lacerazioni

Riflessioni su Occhi nella notte di Yamada Eimi.

Nel 1985 esce Beddo taimu aizu ベッドタイムアイズ (Occhi nella notte) di Yamada Eimi 山田詠美 (1959-).

Spoon sa bene come prendermi. Sa come prendere il mio corpo, non il mio cuore. Sa come tenermi stretta a sé, mentre io, nonostante abbia tentato, non ci riesco.[…]Sarebbe stato più facile se qualcuno mi avesse ordinato di fare in un certo modo e basta. Avrei seguito le istruzioni alla lettera. Come un burattino privo di volontà avrei leccato le ferite di Spoon, non solo il suo uccello. (Yamada Eimi, Occhi nella notte, Marsilio, Venezia 1994, p. 9).

Il romanzo racconta, con un linguaggio crudo, esplicito, tagliente, l’incontro tra Kim, giapponese, cantante di locali notturni, e Spoon, un disertore afroamericano. La voce narrante è quella di Kim, che ripercorre le tappe di una passione consumata tra droga, alcool e violenti rapporti sessuali. Il minuscolo appartamento di lei è il chiuso e soffocante teatro della torbida routine quotidiana dei due amanti. In sottofondo, il rap newyorkese, il pianoforte jazz di Thelonious Monk; in primo piano, i corpi nudi: la pelle chiara di Kim, l’ebano di Spoon.

Guardo nello specchio al lato del letto. L’immagine riflette me aggrappata al lenzuolo bianco sempre più spiegazzato sul quale giace il mio corpo. Fin lì è solo un fotogramma sfocato. Sopra di me è steso il mio amato lenzuolo nero, e l’immagine si fa nitida. Poi non mi riesce più di distinguere il lenzuolo bianco da quello nero. A tratti, solo vagamente cosciente, inseguo con lo sguardo la scia rossa dello smalto sulla punta delle dita. (ibidem, p. 44)

E poi odori, sapori, liquidi densi e speziati: una scrittura prepotentemente dei sensi, vista, tatto, gusto, olfatto. Immagini vibranti che si intrecciano ai dialoghi asciutti, volgari, dove lo slang dei bassifondi newyorkesi si mescola a quello dei quartieri malfamati di Tokyo.

Il corpo di Spoon rigato di sudore, nero, splendente, era cioccolato caldo, a morderlo sarebbe stato dolce. Tutto qua. Era solo questo che cercavo aggirandomi per Tokyo come una pazza? E quell’uomo chi è per me? È davvero tanto importante? Why? Where? When? Tutti gli interrogativi che mi gettavano nella confusione più totale cominciavano per W, mi sentivo come se stessi per vomitarli tutti in una volta. (ibidem, p. 67) .

Ad avere catalizzato l’attenzione di pubblico e critica è stato prima di tutto il linguaggio, così esplicito, insolito in una donna, e in secondo luogo la figura della protagonista, indipendente, disinibita, padrona del proprio desiderio. Ma a ben vedere, Kim è meno trasgressiva di quanto può apparire a una lettura superficiale: proprio la ripresa del più trito degli stereotipi culturali – la potenza sessuale del maschio nero – riconduce anche la protagonista nell’alveo di una femminilità tradizionale, naturale.
Il picco emozionale del racconto si raggiunge quando entra in scena Maria, la migliore amica di Kim. La donna seduce Spoon, e il tradimento, con il dolore e il senso di smarrimento che ne conseguono, provoca uno slittamento della relazione, da un piano meramente fisico a un piano più intensamente affettivo. Ma è troppo tardi: l’uomo viene scovato e prelevato dalla polizia militare, e Kim rimane sola. E' questa la vera cifra del romanzo, la solitudine, lacerante, assoluta. L’aggrapparsi di Kim e Spoon l’una al corpo dell’altro non è altro che un inutile e disperato tentativo di sfuggire al vuoto dell’assenza. Assenza di comunicazione, di comprensione. Ma la fusione dei corpi non può colmare il baratro, il sesso più sfrenato non vale a guarire le ferite dell’anima.

Così Spoon è uscito dalla stanza, ha lasciato casa mia tra due poliziotti che lo tenevano per un braccio. In definitiva, senza uno straccio di motivo concreto, mi hanno lasciata lì da sola. (ibidem, p. 105) .


(da Lo schermo scritto, forthcoming)

Sandra Petrignani, “Il sesso dei libri"

L’argomento si ripropone regolarmente: esiste una letteratura femminile? Ha senso dividere la letteratura, al di là di un elemento brutalmente sociologico legato al sesso degli autori, in maschile e femminile? Non sarà che continuando a distinguere le due categorie si finisce per ghettizzare i libri scritti da donne?
Capita che mi trovi a cena con un amico autore di saggi ammirevoli, Massimo Onofri, critico militante capace di severità inaudita, docente universitario, firma fissa dell’Avvenire, e poi collaboratore della Stampa, L’Indice, Nuovi Argomenti, e giro a lui la domanda. E’ drastico, sicuro di sé: «Ha senso solo per i piccoli romanzi, quelli insignificanti. I grandi libri non sono né maschili né femminili. Sono grandi e basta. Chi se ne importa se l’autore è un maschio o una femmina». Per un momento mi si alleggerisce il cuore. Sono d’accordo vorrei gridare. Vorrei fare il giro del tavolo e andare ad abbracciarlo. Com’ è tutto semplice e chiaro. E poi cambiamo discorso, quasi che il mio quesito non meriti altra attenzione.
Ma poi mi rendo conto che non sono convinta. Troppo semplice e liquidatorio. Certo che un bel libro è soprattutto un bel libro, ma come «chi se ne importa del sesso dell’autore»? A me importa moltissimo, per me una differenza la fa eccome. Non mi piacerebbe ignorare completamente la biografia dello scrittore, la sua provenienza geografica, figuriamoci il suo sesso. A parte il fatto che deve esserci una ragione profonda se nei romanzi scritti dalle donne mi trovo a mio agio come in una cuccia calda (beninteso quelli che mi piacciono). Io adoro Philip Roth, devo moltissimo a Kafka (non meno che a Virginia Woolf) vado pazza per Vladimir Nabokov (almeno quanto per Katherine Mansfield), reputo un genio Samuel Beckett, sono divorata dall’ammirazione per Tolstoj, mi pento con tutta me stessa di aver dato buca inavvertitamente a Milan Kundera tanti anni fa (questo però lo racconto un’altra volta), perché conoscerlo sarebbe stato fantastico, ma. Ma quando li leggo so sempre perfettamente che sto leggendo il libro di un maschio. Non che mi dia fastidio. Anzi, mi affascina, mi diverte, m’incuriosisce. Però lo so.
Cosa so esattamente? Che il mio alfabeto è un altro, l’aria di casa è un’altra. Quella che respiro se apro una pagina qualsiasi, per esempio, di Marguerite Duras. E non è che Duras sia più ossessionata dall’amore (tema che si vorrebbe spiccatamente femminile) di quanto lo sia Roth. L’amore come desiderio, la passione erotica, sono centrali per entrambi. Solo che una esprime l’ossessione femminile, l’altro quella maschile per lo stesso oggetto. Ecco il punto: la differenza è semplicemente, dolorosamente, sessuale. Sì, signori miei, checché ne dica Onofri, ora mi sono convinta: la letteratura è sessuata e non ha senso negarlo. Anzi, è uno dei suoi elementi più potenti, e sospetto che sia un elemento di irresistibile fascino di certi autori che ci fanno cadere perdutamente innamorati. E questo non esclude affatto amori omosessuali.
E non mi si dica che sostenendo il sesso della letteratura torno dritta dritta nel campo sociologico. Eh, no. Qui siamo nel territorio del profondo, psiche e inconscio, altro che. E un grande libro è semplicemente un libro più sessuato di altri, altro che «né maschile, né femminile» come dice Massimo. Un grande romanzo sprigiona probabilmente un potenziale erotico incalcolabile. E sfido chiunque a sostenere che la sessualità femminile è uguale a quella maschile.
Ecco, forse ho scoperto l’acqua calda, eppure ora tutta la complicata e sempre insoddisfacente questione se esista o no uno specifico letterario femminile mi sembra che abbia trovato una sistemazione. Quel che non mi suona però è un’altra cosa: la presunzione che gli uomini hanno di mettere le cose in un certo modo. Ovvero ti chiedono: «esiste secondo te una letteratura femminile?» come se la normalità fosse la Letteratura (tacitamente maschile) e poi ci fosse un luogo strano, altro, stravagante quando va bene, melensuccio quando va male, dove le donne si scatenano e ne scrivono di tutte, magari anche in modo affascinante, magari degne della loro (dei maschi) preziosa attenzione, ma insomma sempre da femmine, che poi cosa sono le femmine? Quelle cui manca qualcosa, no?, anzi la Cosa (o meglio sarebbe dire il Coso), l’unica Cosa/Coso che davvero conta per la mente di un uomo.
Ecco, l’ho detto. Mi stava sullo stomaco. Sì, sì, sì, la letteratura è femmina e la letteratura è maschio, e omosessuale, e transessuale probabilmente, e bianca e nera, e ha un odore e un sapore quando è grande letteratura, e gronda umori a volte molto scomodi. Ma gli umori che escono da un corpo di donna sono parecchio diversi da quelli che stilla un corpo maschile, e lasciateceli godere entrambi. Ma alla pari, sul serio, finalmente.

(da Giudizio Universale 8/1/2010)

sabato 14 maggio 2011

La coscienza delle parole

Da Susan Sontag, un breve brano tratto dal discorso di accettazione del Premio Gerusalemme. Poche, perfette parole.

"(…) Ci preoccupiamo delle parole, noi scrittori. Le parole significano. Le parole indicano. Sono frecce. Frecce conficcate nella ruvida pelle della realtà. E più sono astratte e imponenti, più finiscono per assomigliare a stanze o a gallerie. Possono espandersi o franare. Possono riempirsi di cattivi odori. Spesso ci fanno ripensare ad altre stanze, in cui ci piacerebbe vivere o ci sembra di vivere già. Possono diventare spazi inabitabili perché perdiamo l’arte o la saggezza necessaria per viverci. E alla fine quelle cubature di intenzioni mentali che non sappiamo più abitare verranno abbandonate, sprangate chiuse per sempre."

Il sapore del sake

- Nattō di tonno, frittelle di renkon, scalogni sotto sale, - ho ordinato mentre mi issavo su uno sgabello, e nello stesso momento il signore anziano accanto a me, che vedevo di schiena, ha detto: - Scalogni sotto sale, nattō di tonno, frittelle di renkon. È il gusto il fil rouge della fragile storia d’amore che il romanzo La cartella del professore, recentemente pubblicato da Einaudi nella traduzione di Antonietta Pastore, racconta. L’autrice, Kawakami Hiromi (1958-), affascina con il tratto fluido e lieve che da sempre rappresenta la cifra della sua scrittura, l’umorismo sottile ed elegante nel quale stempera il magma delle passioni umane. Fin dal primo, fortuito incontro - dal quale la narrazione prende l’avvio - della protagonista Tsukiko, trentasettenne solitaria, con il suo antico professore di letteratura del liceo,  sono profumi, sapori, colori, a guidarci riga dopo riga in una storia che si snoda nella realtà di un quotidiano metropolitano, eppure continuamente scivola in una dimensione altra, che su quello stesso quotidiano pare galleggiare.
Una passeggiata al mercato di Minamimachi, fra le bancarelle di frutti di mare, gamberetti, piccoli granchi, dei quali riusciamo quasi a percepire il fresco profumo salmastro mescolato al pungente piccante del kimuchi. Una gita a Tochigi, per accompagnare il sopraggiungere dell’autunno, in cerca di funghi: kakishimeji, matsutake, shiitake, nomi da assaporare insieme a una coppa di sake. La cucina giapponese è per vocazione stagionale, e coltiva un rapporto molto stretto con il territorio: ogni regione, villaggio, quartiere ha una propria specialità. E allora ecco l’oden, la fumante zuppa invernale tipica del Kantō; il sake gustato all’ombra dei ciliegi in fiore; le trote alle soglie della stagione delle piogge. Colore, profumo, forma titillano le papille e scandiscono lo scorrere dei giorni, e i due protagonisti attraverso questa miriade di sensazioni gustative prendono vita l’uno allo sguardo dell’altro, ed entrambi a quello del lettore. Non solo, ma, parallelamente alla mappatura dei sapori, il romanzo disegna una cartografia immaginaria di Tokyo: una breve puntata a Kappabashi, un cinema a Yūrakuchō, la familiare nomiya davanti alla stazione. Un piccolo mondo sempre più evanescente sullo sfondo di una metropoli liquida e invasiva. In città, ho sempre l’impressione di essere sola, o al massimo in due, col professore. E sono convinta che vi si trovino soltanto degli esseri viventi molto grandi. Ma se facessi bene attenzione, di sicuro scoprirei di essere circondata anche lì da tante forme di vita.
Il dubbio che Kawakami strizzi l’occhio alle aspettative del pubblico non giapponese sorge, ma sono innegabili da un lato la grazia leggera, dall’altro la consonanza di temi e immagini che l’avvicina ad altre scrittrici contemporanee. Gli ultimi anni hanno visto crescere l’interesse per il coro di voci femminili che rappresentano una delle forze più vitali all’interno della letteratura giapponese contemporanea. Creative, ironiche, provocatorie, coraggiose, le donne si sono cimentate nei più svariati generi: dal romanzo d’amore allo youth novel,  dalla fiction storica al noir, fino al più recente fenomeno dei keitai shōsetsu, i “romanzi da cellulare”, scritti pigiando sui tasti dei moderni telefonini con connessione internet, e letti sui minuscoli schermi, dopo averli scaricati da appositi siti dedicati. Giovanissime, come Kanehara Hitomi, classe 1983, vincitrice a soli vent’anni, con il trasgressivo Serpenti e piercing, del prestigioso premio letterario intitolato ad Akutagawa; adulte, approdate alla scrittura dopo aver percorso altre strade come Taguchi Randy (1960-) o Kirino Natsuo (1951-). Pagina dopo pagina, sempre corpi e volti di donna: feriti, deformati dalla solitudine, ridotti a maschere grottesche, ma indomiti. Sullo sfondo Tokyo, la città-non-stop, senza sonno, senza riposo; in primo piano adolescenti spezzate, quarantenni deluse, e passi che rimbombano nel vuoto di uno spazio architettonico e urbano sempre meno pensato per accoglierle: caffè anonimi, convenience stores desolatamente identici gli uni agli altri, marciapiedi deserti. Identità in bilico, che attraversano la metropoli e in essa cercano disperatamente di incidersi, di lasciare un segno, una traccia che condensi la loro esistenza. Corpi. Ai quali il cibo, che è gusto, olfatto, tatto, ricorda – nel bene e nel male – la propria materica fisicità: negato nei corpi in fame di Kanehara; nauseabondo nella fabbrica di bentō dove lavorano le protagoniste del corrosivo Le quattro casalinghe di Tokyo di Kirino; taumaturgico ne Il ristorante dell’amore ritrovato  dell’esordiente Ogawa Ito (1973-); poesia ne La cartella del professore.
 
(da Il Manifesto, venerdì 29 aprile 2011. Prima dell'intervento della redazione...)

Città reali, possibili, immaginate

Ciò che succede nelle città, non resta celato sotto un silenzio opaco.
Maria Zambrano

Tra i fenomeni che hanno segnato il passaggio dall'era industriale alla realtà post-industriale vi è l'assunzione di un peso sempre maggiore dello spazio urbano, come centro di quei processi di consumo all'interno dei quali anche la cultura ormai si colloca. Le città tendono così a diventare degli immensi contenitori di beni, servizi e immagini che devono essere organizzati o ri-organizzati in funzione della radicale ridefinizione delle strutture della vita quotidiana. La città-non-stop, senza sonno, senza riposo, della quale Tokyo è l'epitome, diventa il modello di riferimento al quale tendono piccoli e grandi centri urbani. Un labirinto metropolitano nel quale l'uomo, come monade, può solamente smarrirsi: uno spazio che vede dissolversi il confine tra l’astratto e il quotidiano, tra i margini e il centro, tra il reale e il virtuale. Corpi di un’architettura sempre più fine a se stessa, corpi di donne e di uomini che li abitano, li percorrono. Sorta di contenitori in cemento e acciaio di sentimenti, desideri, paure, le città iper-moderne reali e immaginate vedono presente e futuro intrecciarsi con un passato che, proprio nel momento in cui i suoi moduli vengono stravolti, inizia una nuova vita, come traccia isolata, e solitaria, silente memoria.
La stessa Tokyo è protagonista, come luogo reale e come luogo simbolico, nella narrativa giapponese contemporanea. Il testo si modella sulla città, e nel contempo la decostruisce per ricomporla nella scrittura: distorsione distopica, groviglio di strade ed edifici, de-identificata e sconnessa dalla propria stessa fisicità. Ab-norme cassa di risonanza, ripetitore che genera un rumore crescente, voragine che nella ripetitività dei suoi moduli, nella perdita di centro, confini e identità storica, inghiotte. 
Hasegawa Junko, “L’uovo infecondo” (in No geisha. Otto modi di essere donna nel Gippone di oggi, Mondadori, 2008, pp. 161-194). Cenere alla cenere, polvere alla polvere. Il ticchettio dei miei tacchi alti riecheggia per le scale, mentre, con un sacchetto di plastica del Family Mart contenente un succo di mela in tetrapak, raggiungo a fatica il mio appartamento.  Donne sole, quarantenni i cui passi risuonano nel vuoto di uno spazio architettonico e urbano sempre meno pensato per accoglierle: caffè anonimi, convenience stores desolatamente identici gli uni agli altri, marciapiedi deserti. Identità in bilico, che attraversano la metropoli e in essa cercano disperatamente di incidersi, di lasciare un segno, una traccia, che condensi la loro esistenza. Casa. Anonimi palazzi tutti uguali. Scale. Un minuscolo appartamento. Spazio privato, spazio dell’emotività. Forse la maternità potrebbe essere una risposta. Partorire un figlio, mettere al mondo il mondo: ma quel richiamo che ritorna ossessivo pagina dopo pagina  – uovo, latte di cocco misto a tapioca  – rifiuta di lasciarsi afferrare, e l’atto di dare la vita si realizza solo nel sogno, nel finale.
E intanto, continuo a sognare uova, tutte le notti. […] Chiudo gli occhi e vedo il sangue che scorre a tutta velocità dietro le mie palpebre. Poi, le pareti mi risucchiano al loro interno e, dopo qualche istante, mentre vengo espulsa, urlo: Eccola, la vedo, la mia testa! Partorire il mondo, cioè, mettere al mondo se stessa. Un soggetto femminile capace di svincolarsi dalla marginalità cui la contemporaneità ancora la relega. Non è casuale infatti che lo spazio in cui le protagoniste dei noir di Kirino Natsuo si muovono sia quello delle periferie, luogo marginale, traduzione in termini iconici, fisici e spaziali della liminalità dei personaggi che la attraversano. Leggere Kirino significa scoprire, raccontata con spietata lucidità, la realtà del Giappone, della Tokyo di oggi, senza il filtro dell’esotismo, più o meno di maniera. Nascere e vivere da donna nella società giapponese è una cosa estremamente difficile.  Perché la donna in Giappone non è mai se stessa, ma sempre qualcosa d’altro, il riflesso di quello che vogliono, desiderano o sognano gli uomini. Ed ecco che scattano meccanismi che possono portarle a commettere atti estremi, fuori da norme e consuetudini (OUT, come recita il titolo originale di Le quattro casalinghe di Tokyo, Neri Pozza, 2009). Kirino è maestra nel fondere la suspence del poliziesco e l’acuta analisi psicologica e sociale: il crimine è una crepa, un vuoto di moralità e valori che permette di illuminare, come in un flash, gli aspetti profondi della realtà. E la scrittrice se ne serve per ridisegnare l’immagine letteraria della donna giapponese, inscrivendola nei contorni di figure di donne reali, che vivono e lavorano. Grotesque (Neri Pozza, 2008) racconta la storia, veramente accaduta, di una nubile dalla doppia vita: di giorno donna in carriera in una prestigiosa società di consulenza, di notte prostituta per libera scelta. Uccisa, strangolata, all’età di 39 anni, da un cliente notturno, un giovane clandestino cinese, fuggito dalla miseria della Cina contadina e abbagliato dal sogno ingannevole di una ricchezza facile nella metropoli iper-moderna e iper-sviluppata. Il sistema città costruisce spazi socialmente e sessualmente definiti: nelle periferie, nei bassifondi trovano rifugio i disadattati, gli immigrati, le donne. Soggetti cui è negato l’accesso al “centro”, al potere, sia esso economico o sociale. Soggetti che nel degrado si illudono di trovare uno spazio di libertà. Figure grottesche, comunque eccessive, comunque “sbagliate”. [...]

(in Michele Corleone BokeTokyo, GBE, Roma 2011)