Per me un Pol Roger rosé (chi mi conosce sa che ho un debole per le bollicine). Per voi? giusto un brindisi, come si addice all'inizio di ogni nuova avventura....

domenica 29 maggio 2011

Kawase Naomi


“…Il cinema…realtà violentemente avvinta alla memoria.
Attanaglia l’anima di chi vive nei nostri ricordi, si avvinghia al tempo…”


Kawase Naomi, giovane regista della nuova generazione, nasce nella prefettura di Nara nel 1969. Dopo la separazione dei genitori, viene allevata dai nonni, due persone che incarnano ai suoi occhi una tradizione culturale destinata a intridere molta della sua produzione. Dopo il liceo, si trasferisce a Osaka per studiare fotografia, e nello stesso istituto dopo il diploma, insegna per un periodo di quattro anni. La prima esperienza nel mondo delle immagini, con una 8 mm, è del 1988, e già suggerisce in fase embrionale la dimensione intima e passionale, che caratterizzerà la sua intera filmografia. Dopo soli quattro anni, nel 1993, il primo riconoscimento: il «Premio esordienti» al Festival Image Forum di Tokyo. È tuttavia nel 1997 che sul suo nome si concentra l’attenzione internazionale: il premio Fipresci al Festiva1 Internazionale di Rotterdam e la Caméra d’Or al Festival di Cannes, entrambi ottenuti con Moe no Suzaku, la segnalano come una delle più interessanti autrici del cinema contemporaneo e danno i1 via a una lunga serie di riconoscimenti. E' tuttavia con il successivo Sharasōju (2003), che il cinema della regista trova l'equilibrio perfetto tra finzione e autobiografia, con un'intensità e una forza espressiva che non lasciano tregua. In Italia, nel 2002, le è stata dedicata una personale nell’ambito dell’Infinity Festival di Alba.
Per questa giovane regista, il cinema nasce dall’esigenza di lasciare una traccia del proprio passaggio nel mondo. Naomi dunque, e la realtà, un susseguirsi di immagini – persone, cose, ma anche animali, piante – che la presenza dichiarata dell’obiettivo pone al centro dell’attenzione, trasformandoli. Naomi è nel contempo autrice e oggetto della ripresa. La sua vicenda, la ricerca delle proprie radici e della propria identità, di figlia, di adulta e di donna, sul piano della realizzazione filmica si intreccia con una molteplicità di immagini che raccontano altre vite, talvolta un altro tempo. Non solo autobiografia dunque, ma anche documentario, e fiction, perché è la vita stessa che lo chiede. E’ necessario prendere le distanze dalle paure e dai desideri più profondi per poterne vedere - e mostrare - nella loro interezza il libero fluire.
L’arte di Naomi, lavoro dopo lavoro, nel momento in cui la giovane donna che è diventata riesce ad affrontare la bimba abbandonata del passato, acquisisce una nuova dimensione, la profondità temporale. Il divorzio dei genitori, la separazione dal padre - uno yakuza, cioè un membro della potente mafia giapponese - hanno segnato dolorosamente la sua vita, provocando una frattura profonda che deve essere ricomposta: Kawase deve re-imparare il linguaggio degli affetti famigliari, perché riconciliarsi con le figure genitoriali significa reimmettersi nella corrente di quel tempo lineare che scivola dolcemente dalla nascita verso la morte. Opere della piena maturità artistica, prima film, poi romanzi, Moe no Suzaku (Suzaku, 1997 ) e Hotaru ( Lucciole, 1999; 2001 ) rappresentano il momento della riflessione, della rielaborazione del materiale autobiografico nella fiction. Qui è come se Naomi, con tutto il suo bagaglio di sofferenze, gioie, interrogativi più o meno irrisolti, si frantumasse in tante figure diverse. Il tema centrale è la famiglia, una famiglia in vario modo sempre privata della presenza di un padre. In una cultura nella quale la donna politicamente, ideologicamente e simbolicamente è prima di tutto figlia, la scelta stessa di realizzare una nuova consapevolezza attraverso la sovversione dei tradizionale ruoli di genere costringe Kawase a affrontare la figura paterna, ingombrante, incombente, ingigantita dalla sua stessa assenza.
In Hotaru invece, è il rapporto con la madre – e con la maternità – a essere centrale. Il momento della ricerca è passato, il trauma dell’abbandono superato: l’artista si è già riconciliata con il proprio ruolo di figlia, ed è pronta a percorrere il cammino che la porterà alla piena maturazione come donna.

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