Per me un Pol Roger rosé (chi mi conosce sa che ho un debole per le bollicine). Per voi? giusto un brindisi, come si addice all'inizio di ogni nuova avventura....

sabato 14 maggio 2011

Città reali, possibili, immaginate

Ciò che succede nelle città, non resta celato sotto un silenzio opaco.
Maria Zambrano

Tra i fenomeni che hanno segnato il passaggio dall'era industriale alla realtà post-industriale vi è l'assunzione di un peso sempre maggiore dello spazio urbano, come centro di quei processi di consumo all'interno dei quali anche la cultura ormai si colloca. Le città tendono così a diventare degli immensi contenitori di beni, servizi e immagini che devono essere organizzati o ri-organizzati in funzione della radicale ridefinizione delle strutture della vita quotidiana. La città-non-stop, senza sonno, senza riposo, della quale Tokyo è l'epitome, diventa il modello di riferimento al quale tendono piccoli e grandi centri urbani. Un labirinto metropolitano nel quale l'uomo, come monade, può solamente smarrirsi: uno spazio che vede dissolversi il confine tra l’astratto e il quotidiano, tra i margini e il centro, tra il reale e il virtuale. Corpi di un’architettura sempre più fine a se stessa, corpi di donne e di uomini che li abitano, li percorrono. Sorta di contenitori in cemento e acciaio di sentimenti, desideri, paure, le città iper-moderne reali e immaginate vedono presente e futuro intrecciarsi con un passato che, proprio nel momento in cui i suoi moduli vengono stravolti, inizia una nuova vita, come traccia isolata, e solitaria, silente memoria.
La stessa Tokyo è protagonista, come luogo reale e come luogo simbolico, nella narrativa giapponese contemporanea. Il testo si modella sulla città, e nel contempo la decostruisce per ricomporla nella scrittura: distorsione distopica, groviglio di strade ed edifici, de-identificata e sconnessa dalla propria stessa fisicità. Ab-norme cassa di risonanza, ripetitore che genera un rumore crescente, voragine che nella ripetitività dei suoi moduli, nella perdita di centro, confini e identità storica, inghiotte. 
Hasegawa Junko, “L’uovo infecondo” (in No geisha. Otto modi di essere donna nel Gippone di oggi, Mondadori, 2008, pp. 161-194). Cenere alla cenere, polvere alla polvere. Il ticchettio dei miei tacchi alti riecheggia per le scale, mentre, con un sacchetto di plastica del Family Mart contenente un succo di mela in tetrapak, raggiungo a fatica il mio appartamento.  Donne sole, quarantenni i cui passi risuonano nel vuoto di uno spazio architettonico e urbano sempre meno pensato per accoglierle: caffè anonimi, convenience stores desolatamente identici gli uni agli altri, marciapiedi deserti. Identità in bilico, che attraversano la metropoli e in essa cercano disperatamente di incidersi, di lasciare un segno, una traccia, che condensi la loro esistenza. Casa. Anonimi palazzi tutti uguali. Scale. Un minuscolo appartamento. Spazio privato, spazio dell’emotività. Forse la maternità potrebbe essere una risposta. Partorire un figlio, mettere al mondo il mondo: ma quel richiamo che ritorna ossessivo pagina dopo pagina  – uovo, latte di cocco misto a tapioca  – rifiuta di lasciarsi afferrare, e l’atto di dare la vita si realizza solo nel sogno, nel finale.
E intanto, continuo a sognare uova, tutte le notti. […] Chiudo gli occhi e vedo il sangue che scorre a tutta velocità dietro le mie palpebre. Poi, le pareti mi risucchiano al loro interno e, dopo qualche istante, mentre vengo espulsa, urlo: Eccola, la vedo, la mia testa! Partorire il mondo, cioè, mettere al mondo se stessa. Un soggetto femminile capace di svincolarsi dalla marginalità cui la contemporaneità ancora la relega. Non è casuale infatti che lo spazio in cui le protagoniste dei noir di Kirino Natsuo si muovono sia quello delle periferie, luogo marginale, traduzione in termini iconici, fisici e spaziali della liminalità dei personaggi che la attraversano. Leggere Kirino significa scoprire, raccontata con spietata lucidità, la realtà del Giappone, della Tokyo di oggi, senza il filtro dell’esotismo, più o meno di maniera. Nascere e vivere da donna nella società giapponese è una cosa estremamente difficile.  Perché la donna in Giappone non è mai se stessa, ma sempre qualcosa d’altro, il riflesso di quello che vogliono, desiderano o sognano gli uomini. Ed ecco che scattano meccanismi che possono portarle a commettere atti estremi, fuori da norme e consuetudini (OUT, come recita il titolo originale di Le quattro casalinghe di Tokyo, Neri Pozza, 2009). Kirino è maestra nel fondere la suspence del poliziesco e l’acuta analisi psicologica e sociale: il crimine è una crepa, un vuoto di moralità e valori che permette di illuminare, come in un flash, gli aspetti profondi della realtà. E la scrittrice se ne serve per ridisegnare l’immagine letteraria della donna giapponese, inscrivendola nei contorni di figure di donne reali, che vivono e lavorano. Grotesque (Neri Pozza, 2008) racconta la storia, veramente accaduta, di una nubile dalla doppia vita: di giorno donna in carriera in una prestigiosa società di consulenza, di notte prostituta per libera scelta. Uccisa, strangolata, all’età di 39 anni, da un cliente notturno, un giovane clandestino cinese, fuggito dalla miseria della Cina contadina e abbagliato dal sogno ingannevole di una ricchezza facile nella metropoli iper-moderna e iper-sviluppata. Il sistema città costruisce spazi socialmente e sessualmente definiti: nelle periferie, nei bassifondi trovano rifugio i disadattati, gli immigrati, le donne. Soggetti cui è negato l’accesso al “centro”, al potere, sia esso economico o sociale. Soggetti che nel degrado si illudono di trovare uno spazio di libertà. Figure grottesche, comunque eccessive, comunque “sbagliate”. [...]

(in Michele Corleone BokeTokyo, GBE, Roma 2011)



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