Per me un Pol Roger rosé (chi mi conosce sa che ho un debole per le bollicine). Per voi? giusto un brindisi, come si addice all'inizio di ogni nuova avventura....

lunedì 23 maggio 2011

L'iconoclastia del presente

Divagazioni  a proposito di Tokyo Decadence di Murakami Ryū.

“Ho la testa piena di vermi” continuavo a pensare, e guardandomi allo specchio con la cuffia ho cominciato a convincermi che fosse vero. Mi dicevo che il mio corpo non era altro che capezzoli e la carne lì in basso, e sentivo davvero solo queste parti ingigantite dentro di me: come nel mare antartico o in altri posti del genere emerge solo la punta dell’iceberg così anche in me spuntano solo i capezzoli e le labbra lì sotto. (Ryu Murakami, Tokyo Decadence, Mondadori, Milano 2004, p. 11).

Scrittore e regista controverso e iconoclasta, Murakami Ryū 村上龍 (1952-) si impone all’attenzione della critica quando nel 1976 pubblica il suo primo libro,  Kagirinaku tōmei ni chikai burū 限りなく透明に近いブルー (Blu quasi trasparente), ritratto crudo e spietato della generazione figlia del boom economico, smarrita in uno psichedelico viaggio, nel corso del quale tutto – sesso, droga, violenza – viene vissuto senza freni. Negli anni successivi, Murakami conferma il suo talento: i suoi lavori, oltre a godere di un sempre crescente successo di pubblico, vengono puntualmente insigniti dei più prestigiosi riconoscimenti. Topāzuトパーズ (Tokyo Decadence, 1988) è una raccolta di racconti che ci introduce ancora una volta al lato oscuro, nascosto di una società solo in apparenza armonica. A guidarci in questo percorso, in un’atmosfera satura di erotismo morboso, le voci delle giovani protagoniste: prostitute, donne  ridotte a pura carne, a oggetti di piacere, di scambio, in un mondo dominato da un dilagante consumismo che fagocita nell’urgenza del possesso ogni grumo di umanità.,

L’uomo ha acceso la tv a tutto volume e l’ha guardata finché io non ho smesso di piangere, poi mi ha tolto dalla bocca la sciarpina tutta bagnata e mi ha sollevato la gonna. Ha preso il mio rossetto dal tavolo e, dopo aver sputato, me lo ha messo tutt’intorno al buco del sedere, poi ci ha infilato lo stick. Ho gridato “Ahi!”, allora lui mi ha rimesso in bocca la sciapina che mi pendeva dalla bocca […] Gli altri due mi hanno estratto il rossetto dal buco, e uno ci ha infilato un dito piegandolo a uncino e costringendomi ad alzare il culo. Poi mi hanno violentata. (ibidem, p. 129).

Ferocia, sadomasochismo, perversione: una storia dopo l’altra, Murakami ci racconta nel suo stile asciutto, nel suo linguaggio di chirurgica precisione, come vengano abbattute nuove barriere dell’umiliazione, del degrado fisico e morale,. Nessuna metafora, nessun eufemismo, nessun orpello, in un crescendo di decadenza e cinismo nei quali corpo e anima sembrano annullarsi, e l’ultimo baluardo d’innocenza – i ricordi di infanzia, di un’adolescenza in cui era ancora possibile sognare l’amore puro – sono destinati a essere spazzati via.

Mi è tornato in mente che quando mettevo su OFF l’interruttore della lampada al neon dell’aula di musica pensavo a quanto sarebbe stato tremendo veder apparire nell’oscurità il terrificante muso di una scimmia. Ho acceso la luce della camera e mi sono guardata intorno lentamente. Tutte le cose mi apparivano deformate, e in ogni oggetto vedevo il muso schiacciato di una scimmia. Quel muso era più brutto della mia faccia, e mi fissava. Sul forno, dietro al frigo, sulla tavola, nella tazzina da caffè, sui reggiseni regalatimi dalla donna, sulla parete, sulla tenda e pure sul grattacielo che vedevo lontano, fuori dalla finestra, c’era sempre quel muso schiacciato di scimmia a osservarmi.
Da quel momento non mi avrebbe più dato tregua. (ibidem, p. 130).

Eppure, qui come in altri lavori, i personaggi di Murakami sembrano in qualche modo preferire il mondo violento, estremo dei bassifondi, alla quotidianità soffocante, alla gabbia vischiosa del perbenismo e della norma sociale. Spesso accostato a Ballard, sulla sua pagina a dominare è l’estremo, l’eccesso assurto a parametro estetico e morale, unica forza in grado di arrestare il flusso della banalità, unica possibile forma di resistenza all'appiattimento della vita contemporanea. Le crepe sottili che percorrono la superficie solo in apparenza integra di un tessuto sociale in realtà rarefatto e fragile, vengono aperte, slabbrate  con brutalità, per far emergere  il lato sordido, il male. La vera provocazione di Murakami non è nelle sue immagini scioccanti, nelle righe che stillano fluidi corporei, sangue, sperma, sudore, nelle visioni indotte dalla droga o dall’alcol. L’iconoclastia  è nel dubbio che insinua: se ancora esiste un frammento di umanità, è qui, nel degrado, nel fondo dell’abiezione.
Il sesso estremo è il filo conduttore che lega la ormai vasta produzione di questo scrittore. Si può parlare di pornografia? Topāzu è forse fra i suoi romanzi quello in questo senso più esplicito: frammenti di vita, ragazze giovanissime che scivolano da una stanza d’albergo all’altra, e in questo peregrinare allucinato abdicano alla propria dignità. Uno spaccato metropolitano spietato. Se c’è pornografia, è negli occhi dei clienti. Manager, impiegati, uomini in fuga dalla propria normalità. Il loro è uno sguardo che non riconosce alcune umanità a quei corpi di donna, è uno sguardo pornografico, perché uccide.  
  
(da Lo schermo scritto, forthcoming)


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