Kirino Natsuo, Una storia crudele (traduzione di
Gianluca Coci), Giano Editore, 2011
Kirino Natsuo, definita da Daisuke
Hashimoto “l’unica vera voce innovativa della letteratura giapponese degli
ultimi venti anni”, torna ora con uno dei suoi maggiori successi, Una storia crudele.
Una scrittrice che si nasconde sotto uno
pseudonimo, un manoscritto che racconta di un’esperienza vissuta, una lettera
che mette in dubbio l’attendibilità dei romanzi. Una scomparsa. Dov’è la
verità? Cos’è la verità? Ogni parola, ogni frase sembra far vacillare la
precedente, in una narrazione che continuamente si nega. La crudeltà è nell’orrore
della storia narrata, una bambina di dieci anni, Keiko – la scrittrice stessa –
rapita e tenuta segregata per lunghi mesi da Kenji, agghiacciante uomo-bambino,
vittima e mostro: nelle sue azioni efferatezza e innocenza si confondono, e su
questa anomalia si costruisce l’ambiguo rapporto che si instaura fra i due,
destinato a segnare per sempre la vita di Keiko, a inghiottire gli ultimi echi
di un’infanzia già minata dalle dolenti lacerazioni della vita famigliare. E la
liberazione non segna la fine dell’incubo, spalanca il baratro della curiosità
morbosa dei media, dei vicini, degli insegnanti, degli psicologi, degli
investigatori. La ragazzina reagisce chiudendosi in un muto isolamento, e l’angoscia,
gli interrogativi senza risposta trovano sfogo ed espressione in un mondo di
cupe e rampicanti fantasie, che saranno il nocciolo del suo esplosivo successo
come scrittrice.
Ancora una volta Kirino ci racconta la
storia di una donna, e con la sua scrittura dal chirurgico nitore ne indaga la
sofferenza, un male di vivere che affonda le proprie radici in un tempo che
precede l’oltraggio, nel selciato plumbeo di una squallida periferia, negli
sguardi vuoti di chi guarda ma non vede, nell’anafettività famigliare. Se
questa è la quotidianità alla quale Keiko viene brutalmente strappata dal suo
rapitore, il mostro dallo sguardo
affettuoso, a quale “normalità” potrà tornare? I romanzi sono castelli di
bugie, le scrive Kenji molti anni dopo, nella lettera che è il motore del
racconto, ma per la bambina violata, che vive nascosta, protetta dalle torri
d’avorio del silenzio che lei stessa ha costruito, rappresentano l’unico
territorio in cui l’incubo, cioè il suo vero
io, può tornare a vivere, pur trasfigurato in visioni ogni volta diverse. Adesso
i ricordi si riaffacciano con prepotenza, crudi, densi – il tanfo di marcio
dell’alloggio di Kenji, l’impronta della trama dei tatami sotto la pianta dei suoi
piedi nudi, il sapore di ruggine dell’acqua nel bricco metallico, l’odore di
cibo che verso ora di cena aleggiava lungo il ballatoio esterno – e chiedono
con urgenza di essere tradotti in racconto. Il desiderio di liberare finalmente
le tante parole mai dette si scontra però con la paura di rivivere l’orrore e
forse ancor di più con il timore di guardare dentro di sé con sincerità. Così
la confessione si fa a tratti reticente, il contorno degli eventi sfuma, i
personaggi proiettano troppe ombre. E proprio questo è il fascino di Una storia crudele, di una narrazione
che si dipana nella zona liminale fra il sogno e il reale, e, nel gioco di
specchi e di immagini rifratte che costruisce, riesce a tenere avvinto il
lettore dalla prima all’ultima riga.
(teoricamente per L'Indice....)
(teoricamente per L'Indice....)
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