Per me un Pol Roger rosé (chi mi conosce sa che ho un debole per le bollicine). Per voi? giusto un brindisi, come si addice all'inizio di ogni nuova avventura....

giovedì 23 agosto 2012

Cartografie della post-apocalissi...


Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.
(Italo Calvino, Le città invisibili)


La città, distrutta, deformata, rinata dalle proprie ceneri, al tempo stesso metafora e nemesi di un sistema e di un potere fatalmente votati a un destino di implosione/esplosione, è senz’altro una delle immagini più potenti, disturbanti e presenti del cinema di animazione giapponese contemporaneo. Da Akira di Katsuhiro Ōtomo (1988) a Metropolis di Rintarō (2001), per limitarci agli esempi più famosi, la metropoli si costruisce come fulcro della narrazione del fallimento della modernità, lo stesso che ha condannato l’umanità a vivere nel limbo sospeso dell’era post-atomica. Edifici che dovrebbero racchiudere e proteggere le vite degli individui e della comunità, articolare gli spazi del pubblico e del privato, si rivelano inadeguati, ambigui, inospitali, porosi. E il rapporto fra l’uomo e l’architettura urbana si fa incerto, e fragile.
La mappa metropolitana di Tokyo – riferimento ossessivamente presente, citazione esplicita o metonimia – si fa ora cartografia di uno spazio simbolico, e in gioco non è solo la distribuzione architettonica delle aree urbane, quanto la rappresentazione iconica del controllo sullo spazio geografico e sulla comunità che lo abita a opera dei meccanismi politici, e la costruzione di nuove gerarchie, valori e poteri.
Film di culto, psichedelico e visionario, Akira esplora uno dei temi ricorrenti dell’animazione giapponese di fantascienza, la metamorfosi del corpo. La pellicola si snoda fra due distruzioni, quella di Tokyo, al termine della III Guerra Mondiale, il 16 luglio 1988 (data della première del film), e quella di Neo Tokyo, risorta dalle macerie 31 anni dopo e teatro della vicenda. Al centro, la figura di Testuo, membro di una delle gang di motociclisti che imperversano per le strade della città.
Legato al capo della banda, Kaneda, da un’amicizia profonda che risale ai tempi della loro difficile infanzia in orfanotrofio e che suscita in lui un mix di sentimenti contraddittori e confusi, sospesi fra una sorta di dipendenza e il risentimento, è un adolescente fragile, fatalmente destinato a essere manipolato da una scienza al servizio delle oscure mire di un potere politico tentacolare, e a diventarne strumento di devastazione e morte. Nella sua trasformazione consiste il nucleo narrativo del film: prigioniero nel laboratorio segreto degli scienziati governativi che con i loro esperimenti scatenano il suo potenziale psichico, Tetsuo riesce a fuggire, ossessionato da Akira, un’entità ambigua con la quale in un ciclo di orrifiche mutazioni – che incidentalmente ricordano un altro cult della cinematografia giapponese dello stesso anno, Testuo di Tsukamoto Shin’ya – sembra passo dopo passo identificarsi. Nel finale, scompare, trascinato nel destino di Akira e degli altri mutanti psichici.
Nell’opening la città ci viene mostrata in una rapida sequenza a volo di uccello: nella luce dorata del sole, la grande arteria stradale multicorsia, i palazzi che la fiancheggiano, fino ad abbracciare con lo sguardo che si alza veloce l’intera area metropolitana dominata da un pugno di grattacieli grigi, a suggerire la presenza di un potere (politico) che allunga la sua ombra minacciosa sulla comunità. All’improvviso una luce incandescente, dalla forma perfettamente semisferica – plastica stilizzazione del fungo atomico – avanza dai sobborghi fino a divorare l’intera città, strade, palazzi, grattacieli. Una scena della durata di una manciata di secondi, eppure dilaniante per lo specifico legame che instaura tra spazio, memoria e identità. Tokyo, Hiroshima e Nagasaki: prodotti della storia che, integrati e più e più volte riproposti nei meccanismi culturali, ne sono riemersi trasformati in significanti universali, per cui a essere in gioco non è ormai l’identità “giapponese”, ma quella dell’uomo condannato a vivere nell’era post-atomica.
Siamo tutti dei sopravvissuti. Tokyo, fin dall’epoca della sua prima, grande espansione alle soglie del ‘900, è sempre stata una delle città simbolo della modernità, del progresso; rasa al suolo dai bombardamenti sullo scorcio della II Guerra Mondiale, non solo risorge dalle proprie stesse macerie  ma più di ogni altra metropoli contemporanea sembra incarnare il sogno avvenirista e il modello della global city.
[...]
Akira fotografa il momento in cui la “città globale” si sta affermando, uno spazio architettonico e simbolico che racchiude le caratteristiche individuate da Sassen, e in più coglie quello che è il tratto peculiare di Tokyo rispetto a New York o Londra, la proiezione nel futuro. Non a caso, dopo l’opening e i titoli di testa, ci troviamo catapultati nel 2019, a Neo Tokyo. Questa volta lo sguardo è dal basso, sono piedi che si muovono nei vicoli degradati, aree liminali dal punto di vista urbanistico, economico, sociale, la zona d’ombra del sistema capitalistico. E poi la corsa in moto fra i grattacieli, i fari di luce, le rutilanti immagini pubblicitarie: la scena è una citazione fin troppo esplicita di Blade Runner di Ridley Scott, film di culto del 1982. La lettura filologica della città dei replicanti è nota: una Los Angeles distopica del 2019 (!), con tutti i tratti della metropoli asiatica; lo skyliner si dice sia di Hong Kong, ma nell’immaginario si sovrappone a quello di Tokyo, capitale allora emergente, in pieno boom economico. Colpisce qui come in Akira la disturbante assolutizzazione dell’estetica della sgradevolezza, nessun ristoro è concesso allo sguardo, solo ombre cupe, degrado, e l’ubiqua sensazione di pericolo. Perché questa è l’eredità di Hiroshima e Nagasaki, la paura di una forza distruttrice incontrollata scaturita dal cuore stesso di quelle città teoricamente costruite per accogliere e tutelare la vita delle comunità. Le metropoli cresciute fra le due guerre, ispirate ai modelli dei maestri del modernismo – Mies van der Rohe, Frank Lloyd Wright, Le Corbusier – proponevano una marcata separazione degli spazi: edifici governativi, università, aeroporto e stazione ferroviaria centrale, area industriale, zona residenziale…un’articolazione razionale non solo delle architetture, ma anche della vita degli individui, pensata per garantire ordine, sicurezza, normalità. Ma dal centro nevralgico di quelle stesse città, la sede del potere, urbanisticamente collocato e pensato per poter essere riconosciuto come punto di riferimento dell’identità nazionale collettiva, si è sprigionata una incontrollabile potenza distruttrice che ha alterato per sempre l’equilibrio uomo/scienza/natura. Per questo il potere – qualunque forma di potere, politico o economico – nel mondo post-atomico è iconicamente reso in costruzioni grigie, buie, che odorano di morte.
(Cinergie, forthcoming...)

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